Interviste
Vittorio De Angelis, un tuffo dove il jazz è più fluido e quell’«esagerato desiderio di leggerezza» che disturba – L’INTERVISTA
Il sassofonista napoletano torna con un album senza steccati, dove variopinte prospettive sonore permettono al jazz italiano un salto di qualità. Ecco l’intervista a tutto tondo per conoscerlo
Il sassofonista più interessante del momento è napoletano, ha studiato anche a Bologna e ora vive a Roma. Si chiama Vittorio De Angelis e dopo “Believe not belong”, il suo album d’esordio del 2020 in collaborazione con il trombettista giapponese Takuya Kuroda, è tornato sui piani alti della scena musicale con “Perspective”.
Rilasciato in formato CD e digitale il 30 aprile scorso per New Model Label, il nuovo disco del talentuoso jazzista è un’opera grondante di colori e ricca di sfumature. Decise pennellate di nu-jazz e soul aprono il suono a nuove prospettive, accogliendo l’ascoltatore in uno spazio-non-spazio dove convivono sotto lo stesso tetto atmosfere multietniche, suggestioni d’autore e sonorità avvolgenti.
Il primo singolo estratto è “My own way”, con la meravigliosa voce di Leo Pesci che compare anche nella title track e in “Rose”, unica traccia dell’album non composta da De Angelis, in tributo a Larry Nocella, storico sassofonista di Pino Daniele e genio del jazz italiano. L’originalissima cover è stata rivisitata con l’aggiunta di un testo inedito. La formazione messa su per la realizzazione del nuovo lavoro comprende Vittorio De Angelis (sax, flauto e synth), Francesco Fratini (tromba), Seby Burgio (piano e tastiere), Daniele Sorrentino (basso e contrabasso), Federico Scettri (batteria e percussioni), Leo Pesci e Gabriella Di Capua (voce).
Per conoscere meglio Vittorio De Angelis ecco la mia intervista a tutto tondo e a seguire la scheda biografica e l’approfondimento sul disco.
INTERVISTA
La fluidità di genere – che va tanto per la maggiore oggi in ambito sessuale – caratterizza la tua musica. Anche per il jazz italiano può essere considerato un salto di prospettiva?
Sì, questo concetto sarebbe bellissimo poter estenderlo anche nella musica. Combinare gli stili, mischiare i generi e le sonorità in modo naturale è una cosa che può accadere, e spesso questa cosa infastidisce i puristi, che talvolta storcono il naso, allo stesso modo di come si porrebbero i bigotti nella società civile per scelte di vita che disturbano la loro morale conservatrice e stantia. Il jazz italiano rispetto a quello estero secondo me è ancora molto fermo su certe posizioni e si nasconde ancora dietro pose da musicista antiquato ed è restio al mettersi in gioco nell’epoca in cui vive. Così facendo non fa altro che aumentare la distanza tra la gente e il jazz.
Il titolo del tuo nuovo album è proprio “Perspective”. Perché? Qual è la linea guida che hai seguito per la sua realizzazione e cosa ci hai messo dentro?
Il titolo Perspective nasce da un concetto musicale che consiste nel vedere come la musica, i generi, gli stili si modificano cambiando anche il nostro punto di vista, la nostra prospettiva appunto, e in questo caso il nostro modo di affrontare certi linguaggi musicali. Logicamente è un concetto che possiamo applicare a tanti aspetti della vita quotidiana e ci fa capire come il significato ed il senso di un messaggio cambia se lo analizziamo da punti diversi. Ad esempio ho provato a suonare brani hip hop ma con la prospettiva di un jazzista, oppure l’afrobeat dal punto di vista di un occidentale, cercando quindi evitare di cadere nei clichè dell’imitazione.
Come descriveresti invece il tuo album precedente con cui hai debuttato, facendoti subito apprezzare dalla critica?
Beleve not Belong è stato un esperimento in cui ho combinato due batterie, due tastiere e due fiati creando il Double Trio con dei musicisti fortissimi. Abbiamo suonato 4 dei 7 pezzi tutti insieme nello stesso ambiente di ripresa, cosa che ha creato problemi al missaggio finale ma con un impasto sonoro molto roots e sporco interessantissimo. Il risultato è stato esplosivo e il sound a mio avviso era molto affascinante. Essendo prodotto e gestito tutto in autonomia da me e dalla mia compagna con la nostra etichetta Creusarte Records e non conoscendo a fondo le logiche di Spotify e di promozione digitale non ha avuto tanti streaming, ma i riscontri i degli addetti ai lavori sono stati molto positivi, e questo mi ha fatto comunque piacere.
In Italia l’odio al diverso non ci permette un salto evolutivo. Questa realtà, che fa comodo a certi politici, cozza con la tua apertura musicale o può convivere?
Sono d’accordo, purtroppo è una tendenza alimentata anche da politici senza scrupoli per racimolare consensi, soprattutto tra le fasce meno acculturate della popolazione. La cosa più facile per la politica è indicare un nemico o una minaccia così da alimentarne e condividerne l’insofferenza, per poi indicare una soluzione al problema. Logicamente per un artista questa forma mentis è in totale antitesi col suo mondo che si basa sull’inclusione e sull’assimilazione di nuove culture e idee dalle quali trarre ispirazione. Il concetto di diversità per un vero artista non può mai rappresentare un problema ma anzi un vantaggio. Tutto questo rende difficile la crescita culturale del Paese e di conseguenza anche la vita degli artisti.
Il Coronavirus e la Guerra della Russia cosa hanno portato a galla secondo te e come gli stai vivendo?
Il Covid ha avuto un effetto veramente negativo dal punto di vista musicale per quanto mi riguarda. Pur avendo molto tempo a disposizione per poter comporre ed esercitarmi ad un certo punto ho realizzato che il confronto con altri musicisti e la performance live sono fondamentali e venendo a mancare per un periodo così lungo hanno ostacolato il processo creativo e vanificato in parte anche lo studio. Da questo punto di vista il Lockdown di questi anni, riducendo quasi a zero i concerti live, ha purtroppo limitato l’incontro e lo scambio di idee tra musicisti e anche la possibilità di mettere in pratica ciò che si studiava. La guerra della Russia è sembrata a tutti un evento surreale soprattutto collocandosi appena dopo il Coronavirus, nessuno si sarebbe mai aspettato una tragedia del genere. Ciò ha influito negativamente sul nostro spirito e sull’umore della gente già messo a dura prova dalla pandemia.
Damiano David ha definito i colleghi che non hanno ancora condannato pubblicamente Putin dei “Paraculi”. «Come personaggi pubblici abbiamo un potere enorme: la tendenza a essere sempre neutrali per non perdere o guadagnare pubblico la trovo antiartistica” ha dichiarato. Sei d’accordo o pensi che la musica, soprattutto quella jazz, debba essere slegata dall’impegno politico e sociale?
Sì, io penso che ci sia un esagerato desiderio di leggerezza oggi, e tutto ciò che ci fa fare i conti con la nostra coscienza o che ci fa riflettere ci fa paura e ci fa sentire impotenti. Si è sempre più soli nelle riflessioni più profonde e questo ti porta a pensare di essere sbagliato o fuori luogo, ma forse è la società che sta diventando sempre più individualista e disinteressata al prossimo e ai più deboli. Il mondo virtuale ci ha dato molte più informazioni e ci ha reso più consapevoli ma non ci sta spiegando come intervenire sulle cose nel concreto o come agire per migliorare il mondo anzi ci sta alienando e rendendo più isolati e meno collaborativi. Da questo punto di vista Damiano ha fatto bene in ogni caso ad esprimersi; quando si è a certi livelli hai il grosso potere di fare arrivare dei messaggi e di sensibilizzare la gente su certi problemi, quindi è giusto usare questa forza per scopi utili. Se pensi che negli anni 80, 90 si facevano concerti, dischi, canzoni, eventi per raccogliere fondi o per aiutare popolazioni in difficoltà o per parlare di temi delicati e allora ti rendi conto come tutto oggi procede in un’altra direzione.
Che ne pensi del trionfo della Kalush Orchestra e della loro canzone, “Stefania”, al recente Eurovision Song Contest e dell’evento in generale? Lo hai seguito?
Sì, l’ho seguito in parte e la canzone vincitrice purtroppo non mi piaceva ma non mi è piaciuto nemmeno il messaggio tipo premio consolatorio per una popolazione che sta subendo grandissime perdite in termini di vite umane e di infrastrutture. Ma la cosa più triste dell’Eurovision è stata a mio avviso la decisone di escludere la Russia dalla competizione, la musica dovrebbe unire non discriminare e allontanare.
Se oggi il pop è sempre più lontano dal jazz, il jazz invece tende sempre di più ad esso, pur prendendo le distanze dai suoi musicisti, spesso di livello amatoriale e ben lontani da una preparazione accademica. Quali sono le tue considerazioni a riguardo?
Dire pop in Italia per alcuni musicisti jazz sembra quasi pronunciare una parolaccia. Ma se pensiamo che molti artisti blasonati e leggendari che ammiriamo tutti sono soprattutto artisti pop – basti pensare a Stevie Wonder, Prince, David Bowie, i Beatles e a molti altri ancora – allora direi che i jazzisti finalmente hanno preso consapevolezza che esistono delle formule comunicative nel pop che possono essere assimilate e riproposte col linguaggio e con la tecnica di un musicista jazz senza che la qualità e l’onestà della propria musica ne venga compromessa.
Quando hai capito che da grande avresti fatto il sassofonista e qual è stato il tuo percorso di studi?
Da bambino ho cominciato a studiare con impegno e dedizione piano classico, ma a quell’età se non hai ambizioni concertistiche o non stai preparando un esame al conservatorio, risulta poi ad un certo punto abbastanza noioso e senza senso proseguire quel percorso. Ascoltavo tantissima musica, soprattutto quella di MTV e all’epoca il sassofono era uno strumento usatissimo nel pop. Mi ricordo che fui folgorato guardando un video di David Bowie che si chiamava Blue Jean; mi colpì tantissimo, oltre alla canzone che mi piaceva, la figura del sassofonista, mi sembrava molto figo, e mi piacque soprattutto il fatto che suonò quattro note fantastiche e poi tornò a sedersi come se niente fosse. Poi amavo il funk di Prince, stravedevo per Pino Daniele e poi ho scoperto il jazz, quindi Coltrane, Rollins e tutti i grandi. In seguito dopo il primo periodo al Conservatorio mi spostai a Bologna dove ebbi l’onore di studiare privatamente con uno dei miei miti che era Steve Grossman, un sassofonista leggendario che a 19 anni aveva già suonato in 3 dischi di Miles Davis. In seguito all’esame di laurea al Conservatorio i presentai una tesi proprio su di lui e una sua breve video intervista. Ho svolto poi seminari con nomi importanti della scena jazz mondiale come Lee Konitz, Jerry Bergonzi, Rosario Giuliani e Benny Golson.
Quali sono i 3 dischi pop e 3 dischi jazz, rigorosamente italiani, che porteresti con te in vacanza e perché?
Il primo è ‘’Vai mò’’ di Pino Daniele, poi ‘’Lingo’’ degli Almamegretta, e ‘’I molteplici mondi di Giovanni’’ di Neffa. Sono dei dischi che in passato mi hanno regalato molte belle sensazioni e che riascolterei in vacanza in un momento di relax. Dischi jazz italiani non me ne vengono in mente, in verità potrei dirti alcuni titoli ma nessuno fondamentale per me.
E stranieri invece?
Ma dirti dei dischi pop stranieri è difficilissimo, sono tanti e mi vengono in mente quelli della mia adolescenza quando ne ascoltavo tanti, tipo ‘’Parade’’ di Prince, oppure ‘’Back to black” di Amy Winehouse o “Homogenic” di Bjork, sono dischi che hanno portato una ventata di freschezza e di novità nel mondo del pop alzando di un bel pò l’asticella della qualità. Per i dischi jazz la scelta è altrettanto difficile, direi “In & out” di Joe Henderson, disco interessantissimo per approfondire il linguaggio moderno del jazz, “Love is the Thing” di Steve Grossman, forse il disco migliore di S. Grossman, e “Highway Rider” di Brad Mehldau di una grande profondità e modernità allo stesso tempo.
In “Perspective” hai ospitato due voci decisamente interessantissime: Leo Pesci, che devo essere sincero mi ha “sfondato” a primo ascolto, e Gabriella Di Capua. Come sono nate le collaborazioni e quali sono le voci che ti piacerebbe avere nel prossimo disco?
Gabriella di Capua è una giovane cantante partenopea molto nota nell’ambiente del jazz ed è molto aperta alle sonorità moderne ed alle commistioni di generi. Leo Pesci l’ho conosciuto tramite un amico in comune a Napoli presso il quale studiava piano quando era in Italia. Mi fece sentire un suo brano e io ne fui immediatamente colpito. Ha uno stile da crooner ma con influenze molto black e un timbro vocale interessantissimo. Non a caso per essere apprezzato e per avere riconoscimenti è dovuto andare a Londra dove lavora molto dal vivo e in studio come produttore ritagliandosi pian piano uno spazio importante nella scena nu-jazz Uk. Gà dai primi contatti si è stabilito un ottimo feeling tra noi, abbiamo lavorato a distanza scambiandoci il materiale e valutando insieme come intervenire sull’editing e sulla produzione dei brani. Sono pienamente soddisfatto del suo contributo nell’album e penso che continueremo a collaborare anche in futuro.
Un libro, un film e un quadro che consiglieresti per infondere bellezza nel mondo?
Come libro ‘’Trilogia di New York’’ di Paul Auster, il film ‘’Fino all’ultimo respiro’’ di Jean-Luc Godard, e più che un quadro consiglierei un’opera scultorea, ’’La pietà” di Jago, un giovane artista italiano che apprezzo molto.
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BIOGRAFIA
Sassofonista e compositore napoletano residente a Roma. Laureato al Dams di Bologna e poi al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma dove attualmente risiede con una tesi sul leggendario sassofonista Steve Grossman con cui ha studiato durante la sua permanenza a Bologna. Inoltre ha studiato con Rosario Giuliani e svolto seminari con Lee Konitz, Jerry Bergonzi e Benny Golson. Ha alle spalle un bel bagaglio di live nei jazz club in città europee, in vari festival italiani, sia in formazioni da leader, che con orchestre e registrato dischi come turnista. Il primo disco a suo nome si chiama “Believe not belong” in formazione ‘double trio’ (due batterie due tastiere e due fiati) ed ha come ospite il trombettista Takuya Kuroda (Blue note records). L’album ha ricevuto ottimi riscontri dalla critica. La musica di Vittorio De Angelis mescola in modo equilibrato il jazz, il soul, spunti del miglior beat africani ed il funk, tanto da farne un originale melting pot di notevole fascino e grande piacevolezza. Le coordinate del sound del sassofonista napoletano sono completamente ascrivibili all’universo afroamericano, un prodotto con visione internazionale che guarda alla storia e al meglio della scena contemporanea, in una sintesi stilistica convincente. E’ un salto indietro con lo sguardo in avanti suonando con un piede tra le terre di Rollins e l’altro tra i grovigli ritmici e armonici di Kamasi Washington.
Fuori l’album “Perspective” e il singolo “My own way” con Leo Pesci
Questo nuovo lavoro di il secondo in studio dal titolo programmatico “Perspective” sembra porsi esattamente al centro di più direttrici. A seconda dei punti di vista però. Invenzione e tradizione che provocano cortocircuiti spazio temporali. Se si guarda in una direzione o in un’altra. Dalla scena moderna inglese ai suoni metropolitani newyorkesi e ai ritmi afrobeat. E attorno a queste atmosfere ampiamente battute Vittorio De Angelis costruisce il suo mondo musicale altrettanto codificato, perché rispettoso della storia, dei maestri e dei classici ridistribuendo, nel suo personalissimo modo e stile, gli elementi nello spazio. Elementi noti, tributi ed influenze dichiarate che riescono ad essere sorprendentemente, nello stesso tempo, omaggi e riconoscenze quanto espressioni profonde della propria originalità.
Evidente ad esempio in “Gap”, la prima traccia del disco, l’incontro tra sonorità elettroacustiche e una sorta di anima hip hop come specchio della contemporaneità, che ricorda Glasper. “Sankara”, dal ritmo afrobeat, è dedicato al leader rivoluzionario del Burkina Faso la cui voce si può riconoscere nella parte finale del brano. “Rose” è una composizione del compianto leggendario sassofonista Larry Nocella, estratto dal suo ormai introvabile disco “Everything Happens To Me” del 1980, per la quale lo stesso Vittorio De Angelis ha scritto e adattato il testo cantato da Leo Pesci. “Saharian Dance Hall” è un brano dalle sonorità medio-orientali con un ritmo afrobeat magistralmente eseguito dal batterista Federico Scettri. Evidente già da questa prima lettura superficiale della track-list l’eterogeneità e la generosità musicale di Vittorio De Angelis. In un continuo scambio di registri e generi si passa rapidamente a sonorità elettriche vintage, influenze post-rock e suggestioni cinematografiche. E’ il caso, ad esempio, di “Deep” cantata da Gabriella Di Capua, una ballad che alterna sapientemente momenti delicati ad altri dal sound poliziesco anni 70. “Perspective” allora ci sembra evidente che abbia un significato che trasborda il perimetro di questa singola opera e rappresenti la chiave di lettura per avventurarci fiduciosi nel mondo di Vittorio De Angelis negli anni a venire.
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CREDITI
Il disco è stato registrato presso lo Snoaked Room Studio di Seby Burgio da:
Vittorio De Angelis – Sax, flauto, synth
Francesco Fratini – Tromba
Seby Burgio – Piano e tastiere
Daniele Sorrentino – Basso e contrabbasso
Federico Scettri – Batteria e percussioni
Leo Pesci, Gabriella Di Capua – voci
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