Interviste
Rubrica, INDIE-GESTA. Intervista a Nico Royale
Si pensa comunemente che il Reggae sia un genere prettamente giamaicano e in effetti nacque lì, nel 1968, ispirato dallo Ska e a seguito della pubblicazione del brano “Do The Reggay” dei Toots & The Maytals.
Questo genere però ha viaggiato tanto ed è diventato globale, come uno stato d’animo musicale che accomuna artisti di tutto il mondo.
In questa intervista è chiaro perché in realtà non esistano confini geografici o sociali che possano delimitare il feeling per un genere e il proprio modo personalissimo di interpretarlo.
Nicola Boreali, classe 1983, è nato a Sasso Marconi (“Sasso Gully Side”, cit.), nell’Appennino bolognese ma è cittadino del mondo e la prova vivente di come la musica accomuni oltre ogni distanza chilometrica e culturale.
Conosco Nico da diverso tempo e abbiamo condiviso da musicisti insieme una diretta radio e alcune iniziative e quindi ora è interessante per me intervistarlo al telefono, in questo periodo così complesso.
Nico dà un upgrade a questa sfida parlandomi mentre smaltisce sulle ventosissime colline di Sasso Marconi un pranzo a base di pizza e grigliata. Il livello poi diventa super pro quando mi cita termini e nomi un po’ complicati di personalità reggae mentre cammina, parla e c’è vento.
Ma mi sembra tutto bellissimo. Quando lo chiamo è il 25 aprile, giornata fondamentale e simbolica per tutti noi.
Reggae, vento e Liberazione…
INTERVISTA
Sei un Artista attento alla situazione sociale che viviamo, che esprime vicinanza alle problematiche umane e la voglia di raccontarle tramite la musica. Ti chiedo quindi com’è nato il tuo incontro col “Reggae”, che da sempre è un genere che si fa portavoce degli aspetti umani e sociali della vita. Tra questi, mi viene in mente il tuo singolo “Non è facile parlare di me”, uscito nella Giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo.
Il mio primo incontro col Reggae avviene quando avevo 14 anni, suonavo già la chitarra e inventavo le prime canzoni. Quell’anno sono andato in vacanza-studio a Salisbury, non lontano da Londra.
La famiglia che mi ospitava aveva un giradischi e fra i dischi ce n’era uno dei Toots & The Maytals (la band, formatasi nel 1961, è tra i più noti esponenti della scena reggae giamaicana, ndA) che mi colpisce al primo ascolto.
A casa dei miei genitori c’era una cassettina di Bob Marley, ma il suono dei Toots & The Maytals mi fa proprio innamorare.
Ovviamente a casa dei miei c’erano anche i dischi di Guccini, Pino Daniele, Vasco Rossi e i Beatles.
Il Reggae è un genere nato dalla coralità e comunità, dialogo e collaborazione tra gli artisti, ha riunito tante personalità insieme su un piano comune per raccontare anche le storie della gente, del popolo. Tu sei uno degli esponenti del reggae italiano, – dimmi se questa definizione ti sta stretta o meno -, e hai fatto moltissime collaborazioni, in Italia e all’estero, dove hai vissuto. Quale o quali tra queste ti hanno lasciato di più e vuoi raccontarci, anche per trasmetterci il mood degli incontri nella scena reggae?
Mi piace molto la definizione di “comunità” e sono orgoglioso di essere come dici tu un esponente italiano del Reggae. Oltre a una comunità è un “movimento” globale: questa musica, nata da un’isoletta dei Caraibi si è diffusa in tutto il mondo, proprio per questo si può dire che il reggae proviene dalla Giamaica ma non è solo giamaicano.
Esiste anche quello sudamericano, europeo, americano, fino a quello cinese, australiano, addirittura russo.
Per quanto riguarda il mio percorso artistico ma anche personale, è stata fondamentale la collaborazione con Marcone (Mark-One, considerato uno dei pionieri della scena reggae dub dancehall italiana, ndA) del gruppo BombaBomba di Pistoia, che avevo conosciuto mentre lavoravo al Pistoia Blues Festival e da cui sono andato quando avevo già scritto i pezzi del mio primo album ufficiale, “Singa” (2009) senza però avere ancora idea di come migliorarlo e concluderlo.
Lo andai a trovare nella sua officina, perché lui è un musicista reggae e meccanico! Ed è anche produttore, conosciuto con Matteo Magni come “B.Dub”.
Da lì nacque una bellissima collaborazione e una grande amicizia che ci ha permesso di suonare insieme a lungo come duo, non solo in Italia ma anche in Spagna, Repubblica Ceca, Messico e altri paesi.
Altra dimensione di cui vorrei parlarti è il Collettivo Bungalo Dub e El Aaron (uno dei precursori della scena sound system in Messico, ndA).
Non appena arrivato in Messico ho cercato un movimento reggae. Andai a una serata open mic, chiesi di cantare e conobbi Aaron che si mostrò subito disponibile a suonare insieme, addirittura dandomi l’indirizzo di casa.
Quando però comunicai ai miei amici che erano lì con me dove sarei dovuto andare mi risposero “Guarda che lì è pericolosissimo, appena esci dalla metro ti assaltano, rapinano, non ne esci!”
Io però vado e infatti lui mi viene a prendere proprio alla metro e mi “scorta” fino a casa sua, dove aveva anche lo studio. Da quel giorno anche se ero bianco e biondo (con i dread) ero diventato un “protetto” del ghetto, anzi tutti mi salutavano e ho suonato con loro! Organizzavano molte dancehall in vari locali o feste a casa in cui venivano montati un palchetto e l’impianto e iniziava la festa.
A Città del Messico fare una festa e trovarsi anche in quelle situazioni autogestite a suonare davanti a 1000 persone è abbastanza comune, essendo loro milioni di abitanti.
Nel quartiere ero diventato molto conosciuto e apprezzato e le volte che mi imbattevo nella persona “sbagliata” saltava subito fuori Aaron dicendogli di lasciarmi stare perché ero un amico.
Altra collaborazione da ricordare è con Tiano Bless, cileno, che ho conosciuto al Rototom Sunsplash Festival (importante festival reggae a Benicàssim, Spagna, ndA) tramite la crew MaggioReggae di Firenze. Tiano è un polistrumentista eccezionale, con una gran voce, e con lui ho scritto “Peace”, presente nel mio ultimo album “Ghetto Stradivari”.
Gli ho organizzato un piccolo tour in Italia tra Bologna, la Riviera Romagnola e Ancona e aspetto che lui mi chiami in Cile.
A proposito di collaborazioni, sei tra i fondatori e gli organizzatori del Reno Splash Festival, il festival musicale antirazzista che da anni ha luogo per alcuni giorni a Marzabotto e, come recita la vostra pagina social, “promuove attraverso musica, incontri, sport e dibattiti la conoscenza e il rispetto delle diverse culture del mondo”.
Al Reno Splash si sono esibiti musicisti locali e artisti internazionali come 99 Posse, General Levy, Skarra Mucci, Esa, Inoki, Johnny Osbourne, Raphael, Mama Afrika, Markone, tanti altri e ovviamente tu!
Com’è nato il festival e, parlando della difficilissima situazione che stiamo vivendo, quale sarà la prospettiva del festival per quest’estate, lo posticiperete o organizzerete dirette streaming?
L’edizione di quest’estate è ancora in fase di progettazione e quasi sicuramente la formula sarà diversa perché c’è il rischio che non possa essere fatto dal vivo e quindi probabilmente sì, ci sarà lo streaming ma stiamo aspettando gli sviluppi delle direttive del governo tramite la rete dei festival a cui aderiamo. Potrebbe esserci la possibilità di trasmettere in streaming il concerto dal vivo, in un luogo fisico e poi trasmetterlo online per tutto il pubblico. Però la nona edizione del Reno Splash in un modo o nell’altro ci sarà!
Com’è secondo te oggi la scena musicale a Bologna? Tra l’altro sei tra gli organizzatori di una serata cult ormai, il Roots Balera…
Il Roots Balera è un formato di serata musicale itinerante che da 4 anni anima le serate reggae, dancehall e dub in svariati locali, a Bologna ma anche fuori. La organizzo con la mia associazione Montagna di Suono e con Downbeat Bologna e Solomon B e con tanti ospiti fissi della crew come Daddy Warra, Matteo Magni e King Rico.
Risponde all’esigenza di promuovere il reggae, l’hiphop, il soul, lo ska, il rocksteady, il talento musicale in generale. Il reggae non è un genere che arriva ai primi posti della classifica nazionale e allo stesso modo che in Giamaica, bisogna promuoverlo in prima persona. Sono un artista che si autoproduce i propri album, vado in tour, però nella mia città sento il bisogno di un appuntamento fisso per me e gli altri artisti, per permettere loro di farsi ascoltare e far conoscere questa cultura anche agli altri.
Secondo me il movimento musicale bolognese sta superando una crisi che io ho percepito dal 2008/2009 e spero che torni ai fasti che ho vissuto io nei primi 2000.
Su tutto questo incombe il problema delle limitazioni: concerti che devono terminare presto, i club spostati fuori dal centro, dentro le mura di Bologna non c’è un club dove si possa ballare come poteva essere l’Arteria. La città meriterebbe molto di più.
Anche d’estate ci sono dei problemi per i Festival, non saprei come far andare d’accordo le esigenze di chi vuole dormire e chi invece vuole far festa e ascoltare musica.
Si deve creare un movimento di difesa del valore non solo della musica ma anche del trovare uno sfogo nella festa in sé, come esigenza umana.
La gente lavora anche con la musica e il divertimento, lo testimoniano i posti dove questo avviene normalmente, come Berlino, New York, Londra ma anche Milano, Roma e dovrebbe essere così anche a Bologna, che è sempre stata la patria di cantanti e artisti apprezzati in tutto il mondo. Secondo me in una città universitaria dove la creatività dovrebbe esplodere non si possono avere tante limitazioni.
Parlando di stimoli esistenziali: c’è un libro, un disco o un Autore che ti hanno influenzato nello scrivere o che comunque ti hanno aperto nuove prospettive?
E com’è il tuo processo di scrittura: quadernino e chitarra o inizi col computer a comporre delle basi su cui cantare? Come registri? C’è una strumentazione che prediligi?
Guarda in generale non sono un gran lettore ma c’è un autore che mi ha molto colpito e influenzato, ed è Pier Vittorio Tondelli in tutte le sue opere.
Il disco che da “cinno” mi ha svoltato è Inna Heights (1997) di Buju Banton (cantante giamaicano del movimento Rasta, ndA) e i dischi di Sizzla con l’etichetta XTerminator (etichetta giamaicana).
Ho vari metodi “creativi”, anche se poi quando l’ispirazione arriva arriva quindi non sempre sono gli stessi, credo molto nel cogliere l’attimo e buttare giù l’idea: se succede quando sono fuori registro delle linee vocali sul cellulare o faccio dei video e non appena arrivo a casa riprendo a lavorarci.
Nelle produzioni di ambiente reggae, con produttori italiani e stranieri, mi mandano una loro base, una “version” la chiamiamo noi, strumentale, io la metto su e inizio a improvvisare, cercando di essere il più spontaneo e immediato possibile nel trovare la mia melodia. Ne provo al massimo due o tre e trovo la linea melodica della voce più efficace per quella base, per renderla unica.
Una volta che sono sulla “la strada giusta” passo alle parole e allora sì, prendo quaderno e penna. Spesso su queste basi all’inizio registro improvvisazioni con parole non-sense perché ho sempre avuto come priorità la melodia e poi il testo, anche se ultimamente do molta importanza alle parole, però dev’essere un testo che viene scritto su un’idea melodica unica che faccia capire chi è Nico Royale, il mio linguaggio musicale.
L’emozione viene dalle note della voce, la perfezione accade quando questo si realizza subito con le idee chiare su cosa e come cantarlo.
A casa ho un normalissimo microfono Behringer B2, il mio studio mi basta per fare provini decenti, e poi andare in uno studio professionale a concludere il lavoro!
Hai anche un altro lavoro, fai l’educatore e ti occupi dei ragazzi, impegno fondamentale parlando sempre di “comunità”. Come ha cambiato il tuo modo di approcciarti alla creatività, hai avuto occasione di fare dei progetti musicali con loro?
Cosa manca secondo te nella scuola di oggi, nel percorso umano e formativo dei più giovani? La musica è fondamentale per la loro crescita e ancora troppo poco presente nell’ambiente scolastico…
Sì sono educatore sia nelle scuole che al di fuori e faccio anche progetti musicali, come laboratori di musica d’insieme, laboratori creativi in cui creiamo canzoni con tematiche sociali.
E seguo un giovane ragazzo del Kosovo, ha 14 anni e ha molto talento, si chiama Elmedin. Il comune mi ha assegnato delle ore con lui. La sua unica passione è suonare la chitarra e cantare, scrive già delle belle canzoni nonostante sia giovanissimo, l’ho portato in studio e anche i produttori l’hanno apprezzato. Uno dei miei progetti infatti è promuovere giovani artisti e aiutarli, coinvolgendoli. Tra questi cito Tekla Bless, Solomon B, Elmedin,
e una rapper di Riola che si chiama Rahma.
La musica a scuola è molto importante, la inserirei in tutte le scuole superiori, l’Italia è patria della musica.
Lavoro a Sasso Marconi in una scuola media ad indirizzo musicale ed è fantastico vedere come questi ragazzi a 12-13 anni sappiano suonare il violino, il violoncello, il pianoforte.
La musica fin da bambini è una carta in più, perché è quello il momento in cui ti formi veramente.
La musica è conoscenza, studio e ricerca, farsi venire il male alle mani a forza di provare.
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Crediti Foto: Luca Ortolani