Attualità
Giovanni Aloi con “La Troisième Guerre” alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia – INTERVISTA
A due settimane dalla 77esima MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA l’appuntamento di “Indie-Gesta”, la rubrica libertaria di chi non segue la massa, è con Giovanni Aloi, un regista che sarebbe impreciso definire “emergente”, nonostante arrivi quest’anno con il suo primo lungometraggio in nomination nella sezione “Orizzonti”, La Troisième Guerre, girato in Francia. La storia è molto attuale e immersa (come gli altri lavori precedenti) in tematiche sociali ed esistenziali: nelle strade di Parigi tre soldati dell’operazione “Sentinelle” sono di guardia, allertati da un imminente pericolo invisibile. In quell’irreale sospensione e inazione i rapporti tra loro si logorano, soprattuto quelli con Leo, che è assalito dai dubbi. E un giorno, mentre una manifestazione sta sfuggendo di mano anche lui perde il controllo ed è preda di un vortice di frustrazione e violenza…
Di premi Giovanni ne ha già ricevuti molti per altri suoi lavori, documentari, videoclip musicali e cortometraggi, tra cui “A passo d’uomo” (2013, rientrato nella cinquina finale dei David di Donatello e le selezioni al Festival di Cannes del 2014 e altri festival internazionali), E.T.E.R.N.I.T (2015, proiettato alla 72°Mostra del cinema di Venezia dove riceve il Prix Uip e la nomination agli European Film Awards), nel 2016 viene selezionato per partecipare al Berlinale Talents per la Berlinale 2015 e gira il cortometraggio “Tierra Virgen”, vincitore del Social Award. Nello stesso anno è sceneggiatore di “Good News” di Giovanni Fumu, girato a Seoul, e selezionato nel concorso “Orizzonti” della 73°Mostra del cinema di Venezia.
La candidatura di quest’anno per “Orizzonti” ha un sapore diverso, di un lungo percorso, tortuoso e stimolante come l’Arte sa essere.
La chiacchierata “in notturna” con Giovanni è in videochiamata, perché si trova a Parigi a lavorare alle fasi finali di missaggio del film. Lo conosco da un po’ di tempo e, oltre ad un grande gusto artistico, sicuramente l’ho sempre collegato al notevole gusto eno-gastronomico. Come è emerso anche dalle precedenti chiacchierate con altri artisti, arte e buona cucina si sposano spesso e in ogni caso non c’è niente di meglio che terminare una lunga giornata di scrittura o registrazione con un buon vino (francese, ça va sans dire) e delicatessen!
INTERVISTA
“Stavolta però come vedi sto sorseggiando un’ottima birra panaché perché per un bordeaux oggi è davvero troppo caldo! (Ma non lo scrivere eh!)”, esordisce.
Sei nato a Milano ma fin da bambino hai vissuto a Bologna, eppure la Francia è sempre stata la tua seconda patria, e la “casa” per la realizzazione di molti tuoi lavori…
Sì, infatti ho vissuto in Francia per studiare “Arts plastiques” all’Università Paris VIII a Saint Denis. Già il mio corto E.T.E.R.N.I.T (storia di un operaio specializzato nella bonifica dell’amianto, girata nel distretto ceramico di Sassuolo, ndA) è stato finanziato da una produzione francese.
Avendo lavorato sia in Italia che in Francia, posso dirti che qui c’è grande rispetto per i lavori artistici. Non è facile come si può pensare vedendolo dall’esterno, ci ho messo un po’ per inserirmi “da straniero” nell’ambiente delle produzioni cinematografiche ma una volta che gli addetti ai lavori ti stimano e apprezzano le tue idee, poi metterle in pratica è molto più semplice rispetto ad altri contesti che ho vissuto. Ci si sente accolti e il modo di produrre in Francia è efficace e serio, lo dimostrano i tanti registi stranieri che vengono prodotti qui ogni anno.
In passato comunque Italia-Francia hanno spesso avuto storiche collaborazioni felici da cui sono usciti film culto, mi vengono in mente due titoli su tutti: “Dillinger è morto” di Marco Ferreri (girato a Roma nel 1969, è stato inserito nei 100 film italiani da salvare”, ndA) con Michel Piccoli protagonista e ancora con Piccoli il “Il disprezzo” di Godard (1963, tratto dall’omonimo romanzo di Moravia), girato a Capri nella Villa Malaparte.
Su questo film si percepisce grande aspettativa, da Parigi a Venezia: la tematica è attuale, sicuramente difficile da trattare e intensa. Com’è nata l’idea di scrivere questa storia?
Mi trovavo a Parigi durante gli attentati del 2015. In quel weekend hanno dichiarato lo stato d’emergenza. C’erano militari ovunque, era impressionante, posso dire che li avevo quasi “in casa”, all’epoca vivevo nel quartiere di Belleville.
All’inizio è nato come un corto, scritto con Christian Kuhne, però sentivo che il tema avrebbe avuto bisogno di svilupparsi in un film vero e proprio. Così il produttore Thierry Lounas di Capricci Films mi ha affiancato in scrittura Dominique Baumard, sceneggiatore e regista francese, molto tosto, con cui abbiamo fatto ricerche sul linguaggio militare e sulla vita in caserma che sono durate due anni.
L’idea è stata di fare un film di “guerra urbana” che come stato d’animo può ricordare il “Deserto dei Tartari” di Valerio Zurlini (film del 1976 tratto dall’omonimo romanzo di Dino Buzzati, ndA). E’ diventato un vero e proprio lungometraggio perché la situazione a Parigi è ancora così, convivono due lati: da una parte i presidi militari ci sono ancora e spesso si respira un’atmosfera di paura, altre volte invece non ci si fa più caso ai militari per strada, tanto ci si è abituati.
I tre attori principali, Anthony Bajon, Karim Leklou e Leïla Bekhti, hanno affrontato sicuramente un ruolo delicato: che rapporto si è instaurato tra di voi e come li hai “guidati” durante la lavorazione?
Con gli attori abbiamo iniziato approfondendo molto il loro sentire e vissuto personale, diventando anche amici al di fuori del set. Anche se ora sono attori molto noti in Francia, vengono dalle banlieu o comunque da luoghi popolari.
Anthony, giovanissimo, ha vinto l’Orso d’argento a Berlino (nel 2018 col film “The Prayer”, ndA). Leila (che ha vinto due Cèsar e altri importanti premi) e Karim (che ha appena vinto il prestigioso Cigno d’oro come rivelazione maschile dell’anno al Festival di Cabourg, ndA) erano amici nella vita, già nel 2009 erano insieme sul set di “Un Prophète”, e questo ha sicuramente facilitato la loro intesa anche nelle scene più drammatiche.
Come avete realizzato le scene più impegnative, come quelle delle manifestazioni? Quali sono stati i momenti più complessi nella realizzazione?
Come ti accennavo prima questo film parla anche di una “guerra urbana” che stiamo vivendo: in Francia ci sono tante manifestazioni, in alcuni periodi gli scontri sono all’ordine del giorno. Prima di girare comunque abbiamo visionato moltissimi video di manifestazioni.
In molte scene abbiamo avuto un numero elevato di comparse da gestire, ed era importantissimo girare verosimilmente le scene di massa, in quel tipo di scene quando allarghi l’inquadratura diventa tutto più difficile in termini di credibilità, e per me, che non nasco come regista tecnico è stata una bella sfida, anche perché l’abbiamo girato in un periodo relativamente breve, 7 settimane, tra ottobre e novembre.
Dal punto di vista personale c’è da dire che provengo da una formazione che non è prettamente cinematografica, in senso tecnico, e ogni volta che lavoro su un set sono “a scuola”, ad ogni film imparo. Poi ho un approccio molto istintivo: in genere non faccio liste inquadrature ma piuttosto mi faccio guidare da quello che racconta quella scena, infatti faccio impazzire la mia troupe!
Di sicuro è stato molto importante avere al mio fianco come collaboratore Andrea Barone, direttore della fotografia dei miei cortometraggi e a sua volta regista. Ho convinto la produzione ad assumere lui al posto dello script, abbiamo vissuto insieme, mangiato assieme e praticamente parlato del film 24 ore su 24 per tre mesi abbondanti.
Mi incuriosisce molto anche come avete trattato la parte sonora…
Sì, quella è stata una fase particolare. Ho lavorato con due compositori per due parti distinte del sonoro: Bruno Bellissimo (compositore, produttore e dj italo-canadese con all’attivo numerose collaborazioni con i più importanti artisti della scena indie italiana) ha curato la parte elettronica dei cosiddetti “soundscapes”, proprio per il suo background.
Frédéric Alvarez, talentuosissimo compositore formatosi al Conservatorio di Parigi, invece ha curato la parte orchestrale dirigendo la scorni orchestra nota per le sue collaborazioni cinematografiche. Il ruolo della musica in questo film è molto importante, Frédéric ha dedicato 3 mesi alla composizione della colonna sonora, prima della registrazione finale con l’orchestra, infatti mi mandava le partiture midi e io gli davo indicazioni insieme al montatore Rèmi Langlade.
Per me è di fondamentale importanza il paesaggio sonoro, il sound design e il ritmo che si crea tramite il suono. E’ una fase che curo in modo maniacale. In questi giorni infatti sono a Parigi proprio per assistere e curare il missaggio finale.
Quasi tutti i tuoi lavori precedenti hanno sempre trattato tematiche sociali molto attuali, mi viene in mente, oltre al sopracitato E.T.E.R.N.I.T, “Tierra Virgen” che racconta della realtà di molti contadini peruviani che decidono di sottrarsi all’oppressione della criminalità organizzata: si riuniscono in cooperative e riconvertono le proprie colture tra mille difficoltà o “A passo d’uomo”, la storia di un cassa integrato dell’ILVA di Genova, padre separato che si trova a dover vivere in automobile, schiacciato dalle spese e dalla ludopatia, in una società che lo ha abbandonato….
Sì, il tema del lavoro o del non-lavoro è fondamentale nella nostra società: condiziona la tua vita, le tue scelte, il futuro. Ho approfondito ad esempio le storie degli agricoltori, con vite molto diverse dagli operai che racconto in “A passo d’uomo” ma strettamente collegate e appese al filo dell’incertezza.
Io ad esempio, spesso ho pensato che se fosse andato storto “il piano A” avrei fatto il giardiniere in Liguria, terra a cui sono molto legato: avrei avuto un forte contatto e intimità con la natura, ritmi molto individuali, una vita che comunque mi affascina.
E se dovessi citare uno o più libri che ti hanno ispirato, nella vita e nella scrittura ? E quale regaleresti?
Ti direi “Ubik” di Philip K. Dick. E’ il mio autore preferito perché racconta una fantascienza fortemente legata alla realtà e ha trattato spesso il tema del lavoro, dell’essere formiche e api di un grande alveare.
Ad un attore regalerei “Cuore di cane” di Bulgakov, che credo possa essere spunto di riflessione e ispirazione. Tornando al discorso del rapporto che si sviluppa con gli attori durante la lunga lavorazione di un film, sicuramente svegliarsi tutti alle 5 di mattina e stare a stretto contatto fino alla sera crea un rapporto empatico e di fiducia, devono potersi fidare di te, e quando c’è reciproca stima c’è scambio umano e si possono approfondire meglio le sfumature del personaggio.
Vedendo qualche immagine de “La Troisième Guerre” (che sarà proiettato in anteprima a Venezia) si intuisce come anche la città di Parigi sia protagonista del film…
Assolutamente sì, uno dei punti cardine della storia è la ricerca: quella di un ragazzo che vorrebbe essere utile, “salvare” la sua città, ma sperimenta la sua impotenza.
Parigi è grande protagonista del film e mi sono molto focalizzato sulla sua architettura, un mix tra la Défense (il “quartiere degli affari” di Parigi) dove abbiamo girato, Boulevard Saint Michel, Jardin du Luxemburg: ho provato a catturare vari spot, anche grazie alla fotografia di Martin Rit, che raccontino soprattutto lo stato d’animo di una città, messa a dura prova da un momento storico con molti scontri e tensioni.
Clicca qui per seguire OA PLUS su INSTAGRAM