Attualità
SPAZIO MENTE. Il burnout dei lavoratori ai tempi della pandemia
Il termine burnout significa letteralmente esaurimento o surriscaldamento e si riferisce alla condizione di stress psicofisico e depauperamento delle energie che colpisce i lavoratori che affrontano condizioni particolari. La stanchezza protratta determina l’insorgere di vissuti di scoraggiamento, demotivazione, delusione ed indifferenza che comportano conseguenze negative nella dimensione personale e lavorativa. La sindrome del burnout viene di solito associata alle professioni sanitarie ed assistenziali ma può essere riferita a qualsiasi mansione lavorativa, quella dell’insegnante o delle forze dell’ordine, professioni che richiedono un impegno stressante e pressante oltre che una grande responsabilità umana e lavorativa.
La manifestazione del disagio varia da persona a persona a seconda delle caratteristiche di personalità e delle capacità di coping, ovvero l’abilità nel tollerare e fronteggiare situazioni di intenso stress. Si manifesta in fasi differenti e in un lasso di tempo prolungato. Il soggetto colpito riporta sintomi fisici, quali frequenti mal di testa, stanchezza, disturbi del sonno, disturbi gastrointestinali e problemi psichici come calo dell’autostima, elevata sensibilità allo stress, depressione, etc.
I segnali da non sottovalutare sono la ridotta produttività, la tendenza a considerare le persone come oggetti e la sensazione di perdita di significato della propria attività. Secondo alcuni dati, le donne sarebbero più esposte rispetto agli uomini al pericolo di esaurimento psicofisico.
Nel momento storico che stiamo vivendo, condizionati dal timore del contagio del virus e dal tentativo di arginarne la diffusione, le condizioni psicologiche di chi svolge professioni d’aiuto diventano, purtroppo, sempre più precarie. Medici, infermieri, insegnanti, forze dell’ordine sono chiamati ogni giorno ad affrontare situazioni di emergenza che risultano amplificate dall’incertezza causata da continui aggiornamenti di dati, contagi e conseguenti provvedimenti e restrizioni sociali. La percezione di precarietà, unita agli sforzi costanti richiesti quotidianamente, incide in maniera significativa sulla qualità di vita degli operatori, suscitando vissuti di ansia e di scoraggiamento. Inoltre, l’esposizione ed il contatto continuo con la malattia, la responsabilità, connessa alla gestione di chi curare e chi no, possono generare nel tempo situazioni emotivamente pesanti, mettendo a dura prova i professionisti, stremati da stanchezza, esaurimento e stress.
Le loro condizioni psicologiche vengono esasperate dalla minaccia di trasmissione del virus, dovuta al lavoro in prima linea e dagli estenuanti turni appesantiti dall’uso obbligatorio della mascherina.
Il sintomo significativo che consente di distinguere un semplice stato di stress psicofisico dalla sindrome del burnout è il cinismo, ovvero il distacco mentale che scatta nell’operatore nei confronti dell’utenza e che rappresenta un meccanismo di difesa per poter continuare a svolgere la propria mission senza farsi travolgere dalle emozioni negative. Altro aspetto rilevante ai fini della diagnosi è la presenza di depersonalizzazione (ovvero la sensazione di estraneità rispetto al vissuto) e di derealizzazione (cioè lo stato di irrealtà).
Questi disturbi, se non vengono trattati adeguatamente, possono diventare cronici e determinare l’insorgere del disturbo post traumatico da stress che è stato osservato e studiato, in prima battuta, negli Stati Uniti a partire dalla guerra del Vietnam e dei suoi effetti sui veterani.
È dunque una necessità crescente oltre che un vero e proprio dovere morale offrire supporto psicologico costante a risorse essenziali per la sanità e la società, quali operatori sanitari, forze dell’ordine ed insegnanti. I programmi di sostegno devono puntare alla salvaguardia della salute psicofisica di chi ogni giorno ha a cuore il benessere della collettività.
Alessandra Bisanti, Psicologa, Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale
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Crediti Foto: SHUTTERSTOCK