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Gué Pequeno contro Ghali è la polemica che non ci meritavamo, ma di cui abbiamo bisogno

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Gué Pequeno attacca Ghali e il mondo del rap/trap entra in subbuglio.

Gué ha appena pubblicato “Mr. Fini” ed è impegnato nelle interviste promozionali al suo nuovo album. In una di queste interviste, rilasciate al noto magazine musicale Rolling Stones, il rapper milanese afferma:

“L’Italia è razzista, da sempre e per sempre. Io li conosco i rapper neri, e sono anche bravi, ma non sfondano. Il mercato italiano non è fatto da una base sociale coerente come in Francia o in Germania. Qui, il mercato è una moda. È mainstream ma è una moda. Culturalmente non siamo pronti, può darsi che succederà, ma è più facile con un arabo, con un nero è difficile. Qui il grande pubblico è razzista, non ho fiducia. Il mio giudizio su Ghali era riferito a questo: un artista che va in giro vestito da confetto può andare bene per una sfilata ma non ha grande credibilità di strada. Cioè, non è Stormzy: il tipo in Inghilterra non va in giro vestito da ananas. Io non sono razzista né omofobo ma vedere un rapper che va in giro vestito da donna con la borsetta mi fa ridere, che poi almeno fosse gay. Boh, sono robe assurde.”

Il mondo del giornalismo rap e trap stigmatizza l’affermazione come omofoba, la stampa “autorevole” mainstream si accoda, così come le associazioni LGTBQI+. La generale indignazione si sofferma sulla critica fatta da Gué al modo di vestire di Ghali, ma elimina il contesto entro cui è inserita, che evoca problemi molto più complessi che affliggono la scena rap/trap italiana della semplice omofobia. Questi problemi li possiamo suddividere in 3 punti per semplicità:

1- Perché non abbiamo un rapper/trapper nero fra i big della scena italiana? Perchè Ghali (ricordiamolo, italo-tunisino) è diventato l’icona delle seconde generazioni?

2- Cosa significa street credibility nel contesto italiano? Chi ce l’ha e chi non ce l’ha? Chi decide a chi darla e a chi toglierla?

3- L’omosessualità o la preferenza per un vestiario gender fluid toglie credibilità a un rapper-trapper?

Com’è facile intuire, sono problemi molto più complessi e sfumati rispetto alla semplice omofobia. Qui noi proveremo a tratteggiare il contesto nei quali emergono, e cosa ci dicono delle contraddizioni della scena italiana (molto diverse rispetto a quelle che affliggono la scena USA e quella francese o inglese).

1- Ghali è diventato l’icona delle seconde generazioni grazie alla capacità di mediare fra la cultura araba d’origine e quella italiana. Trapper assai dotato a livello di scrittura barre, le sue prime canzoni sono manifesti di una seconda generazione vogliosa di ascesa sociale e integrazione, senza dimenticare le specificità culturali del paese d’origine dei genitori (ripetiamo: dei genitori. Ghali è nato, cresciuto e formato in Italia, ed è quindi italiano). “Cazzo mene”, “Ninna nanna”, “Happy Days” sono singoli manifesto di una nuova generazione di italiani, aperti musicalmente agli influssi esteri (il rap arabo francese nel caso di Ghali) ma perfettamente a loro agio nella cultura giovanile italiana, di cui condividono il senso di straniamento nei confronti dei valori professati dagli adulti, la sfiducia nella scuola come ascensore sociale, il disinteresse verso i dibattiti politico-religiosi che travagliano la società, nonchè il microcosmo del vecchio rap politicizzato. Il culto per soldi, vestiti di marca e la popolarità sui social accomuna la seconda generazione ai valori dominanti giovanili, limitando molto l’urto dovuto alla diversa provenienza culturale. Passiamo dunque al problema evidenziato da Pequeno: perché non abbiamo un rapper/trapper nero fra i big della scena italiana? La risposta sorprendentemente non è razzista: i rapper/trapper di origine subsahariana mantengono un legame molto più stretto e filologico verso la scena afroamericana rispetto a quelli di origine araba. Nella pratica ciò significa che spesso cantano in inglese o metà in inglese metà in italiano, per aprirsi possibilità commerciali oltre il mercato tricolore. Nella scelta della basi allo stesso modo sono molto più vicini a quanto prodotto negli USA, scartando gli influssi del pop italiano, del raggaetton e della musica latina tipici dei rapper/trapper bianchi, influssi necessari per raggiungere le vette delle classifiche tricolori (chiedere a Sfera Ebbasta, Rkomi o DPG per conferma). E’ proprio questo respiro più internazionale e multiculturale a limitare l’ascesa in termini di popolarità di rapper/trapper di grande talento come Nigga Dium, Laioung nonché il più inserito nei circuiti mainstream Mambo Losco. Detto semplice: per quanto la trap abbia svecchiato e reso meno provinciale la scena italiana, per salire ai vertici delle classifiche bisogna pagare sempre dazio a stili e stilemi del pop tricolore. Lo avevano capito in tempi non sospetti gente come gli Articolo 31 e i Gemelli DiVersi, e più vicino a noi Fedez ed Emis Killa.

2- La street credibility nel contesto italiano è sempre stata problematica. Mutuata dal gangsta rap afroamericano, dovrebbe significare l’aderenza fra la vita dura (per non dire criminale) raccontata nei testi e il vissuto biografico del rapper. In Italia il rap (per non parlare della trap) sono stati generi fatti e ascoltati dalla classe media affascinata dalla mitologia della strada, non essendoci qui un ambiente sociale paragonabile a quello dei ghetti afro in cui il concetto nasce. Nota a margine, gli unici contesti sociologicamente paragonabili a quelli dei ghetti afro, cioè le borgate romane e i quartieri dominati dalla mafia nel Sud Italia, hanno come musica di riferimento il cantautorato dialettale ed il neomelodico, generi con un radicamento decennale in quelle realtà. Gué Pequeno a livello biografico è proprio la prova del 9 del ragionamento: figlio della classe media milanese come gli altri componenti dei Club Dogo, dapprima raggiunge il successo con il gangsta rap, poi fiuta le possibilità commerciali della trap e la importa in Italia (“Il ragazzo d’oro” anno domini 2011, è un dei primi timidi esempi di trap tricolore), divenendone il padre nobile a livello musicale-tematico nonché il padrino per gli artisti più giovani. Il 99% degli artisti trap non proviene dalla strada né ha mai vissuto la vita di strada, mutuando temi-look-pose da film e serie tv che hanno come tema portande la descrizione di quelle realtà: “Scarface”, “Narcos”, “La haine”, “Suburra”, “Gomorra”, “Blow” sono le fonti da cui si sono abbeverati i trapper tricolori per comporre le loro barre. Di biografico nella trap italiana c’è sempre stato poco nulla, paradossalemente Ghali è proprio uno dei pochissimi che in gioventù ha fatto una vita “dura”: nato e cresciuto nel quartiere ghetto milanese di Baggio, padre in carcere e difficoltà economiche costanti, il trapper italo-tunisino la strada l’ha vista, e non a caso ne è scappato appena possibile. Il “problema” di Ghali caso mai è stato il repentino cambiamento di classe sociale e di riferimenti ideologici: appena varcata la soglia del successo ha eliminato qualsiasi riferimento alla vita precedente, integrandosi così bene nel discorso mainstream da diventare il volto giovane della campagna Milanoriparte voluta dal sindaco Sala. Il problema non è quindi che Ghali non abbia street credibility, ma che lui stesso l’abbia messa in soffitta perché scomoda a livello commerciale, adesso che difatto è una star a tinte progressiste sul modello di Jovanotti.

3- Veniamo dunque al problema su cui si è concentrata tutta la polemica: il vestiario gender fluid e l’omosessualità. Paradossalmente la scena trap su questo è molto più aperta e tollerante di quanto si creda: l’icona del nuovo maschio alpha come Tony Effe della Dark Polo Gang non ha problemi ad affermare che se gli va si mette una gonna o le scarpe rosa, così come Sfera Ebbasta non ha mai avuto problemi a mettersi T-shirt rosa o indossare oggettistica tradizionalmente femminile. Il perché di questo atteggiamento è un misto di fattori: amore per l’anticonformismo estetico (ossessione della trap, un genere per cui urtare con il look è fondamentale), assimilazione del tema della fluidità di genere e degli stereotipi di genere come gabbia che limita la libertà individuale (“sono ciò che sono e faccio tutto quello che voglio” ricorre come un mantra nelle interviste ai trapper), crisi dell’identità maschile che sfoccia da una parte nell’esaltazione parossistica degli stereotipi più triviali di genere, dall’altra nell’appropriazione di oggetti tipicamente femminili visti come nuovi status symbol di potere. Tutto questo si traduce poi nella prassi in un fattore spesso ignorato, ma fondamentale: il trapper è un influencer maschio, in perenne lotta per la popolarità con le influencer donne, che sono nel contempo modello, spauracchio e oggetto del desiderio (non a caso, a livello di gossip, numerosi trapper sono fidanzati con influencer, vedasi la famosissima coppia Taxi B – Fishball). Quindi no, la preferenza per il vestiario gender fluid non mina la street credibility se parliamo della scena italiana, dato che qui la lotta senza quartiere e senza esclusione di colpi non è fra gang, ma fra influencer di brand fashion… e questo i fan del genere lo sanno bene, e lo sa bene pure Gué Pequeno, che sul fenomeno ci ha fatto i soldi.
Veniamo dunque all’omosessualità: qui il tema è più spinoso. Il vestiario è ok, ma l’omosessualità nella scena trap (non parliamo di quella rap) è ancora tabù. La bisessualità è sdoganata ed espressa fra l’ironico e il semiserio senza problemi, basti pensare ai testi della DPG o ai baci ai colleghi elargiti da Achille Lauro e dai membri degli FSK, ma l’omosessualità nella scena è assente. I perché ci sono ignoti, dato che la scena mantiene sull’argomento un silenzio catacombale. La gran parte dei trapper incalzati nelle interviste dice di non aver problemi con l’omosessualità e gli omosessuali, che ognuno è libero di fare ciò che vuole, ecc ma di trapper dichiaratamente omosessuali o che hanno come producer o nella crew omosessuali dichiarati in Italia non ce ne stanno. Si potrebbe spiegare con la preferenza delle nuove generazioni per etichette come pansessualità, sessualità fluida, ecc etichette mutuate dal dibattito americano e che lasciano molta più libertà e indeterminatezza rispetto a definizioni nette come “eterosessualità” e “omosessualità”, gravate di un carico storico e politico assai pesante. Ma questo sarebbe schivare il problema: più vicino alla verità è probabilmente affermare che l’omosessualità anche per le nuove generazioni di trapper è tabù, nonostante non sia più così mal vista e stigmatizzata come lo era nel vecchio rap, o in generale fra le generazioni più anziane.

Gué Pequeno ha quindi sollevato con la sua sparata ad effetto problemi non indifferenti e su cui la scena non riflette, per paura di dirsi un’ovvietà: la Trap in Italia è un fenomeno d’importazione statunitense riadattata alla meno peggio, che ha potuto diventare difatto il nuovo pop mainstream a patto di interiorizzare stereotipi, stili e stilemi tipici della tradizione pop italiana, mantenendo con la casa madre USA come unici collegamenti alcune trovate estetiche e una serie di parole-tormentone ripetute fino allo sfinimento perché prive di alcun significato nel contesto italiano (da “Snitch”, a “Street credibility” passando per l’ormai defunta “Swag”), e quindi utilizzabili a casaccio senza conseguenze.

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