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La tv di Alberto Angela ha ancora un senso?

La tv di Alberto Angela ha ancora un senso? La RAI come tv di stato è in crisi, mentre la divulgazione culturale oggi si fa sui social. Alberto Angela appare quindi come un gigante di un modo di concepire il ruolo della tv pubblica superato e che per di più non ha eredi, mentre la divulgazione sui social à la Barbero spopola.

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La tv di Alberto Angela ha ancora un senso? La RAI come tv di stato è in crisi, mentre la divulgazione culturale oggi si fa sui social. Alberto Angela appare quindi come un gigante di un modo di concepire il ruolo della tv pubblica superato e che per di più non ha eredi, mentre la divulgazione sui social à la Barbero spopola.
Crediti foto albertoangela Instagram

La polemica per lo spostamento dell’ultimo programma di Alberto Angela “Noos” a fine agosto, motivato dalla Rai a causa presunta concorrenza di “Temptation Island”, ha aperto polemiche infinite sul web che non accennano a diminuire, nonostante lo stesso Alberto Angela abbia accettato lo spostamento nel palinsesto senza alcuna recriminazione. Il problema delle polemiche è il non aver centrato il vero punto della questione: il fatto che gli scarsi ascolti della prima puntata di “Noos” mettano in crisi il ruolo della televisione di stato e soprattutto il senso di programmi ad alto contenuto nozionistico-culturale come quelli di Angela.

Noos vs Temptation Island

Il primo errore della polemica è stato quello di presuporre che “Noos” sia slittato a causa di Temptation Island, come se il target del primo fosse il medesimo del secondo. A chiunque abbia visto anche solo uno spezzone di qualche minuto delle due tramissioni, risulta evidente che per linguaggio, temi, montaggio, ecc i due programmi sono indirizzati a pubblici totalmente differenti, con due idee divergenti del ruolo che deve giocare la tv nell’ambito della cultura italiana. Chi guarda “Temptation Island” cerca una tv di intrattenimento, che ha l’unico fine di fornire qualche ora di spensieratezza allo spettatore, chi guarda “Noos” lo fa perché crede nel vecchio mandato della RAi come tv pedagogica di Stato, il cui fine è ampliare la conoscenza ed elevare moralmente lo spettatore, per renderlo un cittadino migliore.

La RAI svolge ancora il ruolo di TV pedagogica di stato?

Ad esasperare il tono delle polemiche c’è la sensazione (che non nasce di certo oggi) di molti commentatori che la RAI non svolga più il suo vecchio ruolo di tv di stato. Le recenti defezioni di Fabio Fazio e Corrado Augias a favore della Nove, unita alla progressiva riduzione dello spazio dedicato ai libri, al teatro, alle arti plastiche, alla lirica e agli sport minori da parte della RAI, secondo molti sono chiari segnali di come l’emittente pubblica abbia abbandonato il proprio ruolo pedagogico, per diventare una tv commerciale indistinguibile dalle altre. Il che, fra l’altro, è confermato dai discorsi degli AD che si succedono da 20 anni a questa parte a Viale Mazzini: la RAI punta sempre più a fare share e a cercare di andare a pari nei bilanci, più che a fornire un servizio qualitativamente alto ma in perdita.

La vera domanda è: ha ancora senso una tv pedagogica di stato?

La vera domanda, che pochissimi si sono fatti durante la polemica, è se il ruolo della RAI come tv pedagogica di stato abbia ancora senso. Questo ruolo le è stato affidato dallo stato italiano durante la ricostruzione post seconda guerra mondiale, quando l’Italia era un paese che si stava industrializzando, i tassi di analfabetismo e di bassa scolarizzazione erano altissimi, e l’industria e il nascente terziario richiedevano masse di lavoratori più istruiti per la produzione. A livello politico-culturale i partiti che guidavano lo stato erano eredi della lotta antifascista, e -al di là delle profonde divergenze ideologiche- nei loro programmi c’era l’idea di creare il nuovo cittadino democratico, che si distingueva per essere attivo, informato, colto, capace di apprezzare i grandi sforzi scientifici e culturali del rinnovamento politico portato avanti dalla neonata Repubblica. Cambiato completamente il quadro sociale e politico, ha ancora senso mantenere una tv pubblica con una missione che aveva senso 7o anni fa?

Alberto Angela e i divulgatori dei social

Scendendo dai massimi sistemi all’esempio specifico, è difficile valutare persino se un gigante come Alberto Angela abbia ancora senso in un contesto in cui il ruolo di divulgazione culturale ha cambiato vesti e canali. Il grande successo di Alessandro Barbero su Youtube, l’astro nascente di Edoardo Prati su Instagram, per non parlare di Barbascura, Silvia Goggi e tantissimi altri, dimostrano che sui social chi sceglie di fare divulgazione culturale trova un pubblico ampio e fidelizzato. Il problema non è quindi che la cultura non interessi più agli italiani, ma che il modello con cui viene proposta è profondamente mutato: più settoriale, più immediato, maggiormente attento alle richieste della community, più attento a fornire conoscenze utili e immediatamente spendibili nel quotidianiano nel caso della divulgazione scientifica, e più attento a fornire strumenti utili ad affrontare le grandi sfide sociali del 2024 nel caso della divulgazione umanistica (l’ampio spazio dato all’educazione sessuale-affettiva contenuta nei classici da parte di Edoardo Prati).

Alberto Angela può rinnovarsi?

Il problema ora è capire se Alberto Angela può tentare di ibridarsi con la divulgazione social per rinnovare il pubblico dei suoi programmi, ed offrire un prodotto più in linea con le esigenze del 2024. La risposta purtroppo è no: non tanto per l’età del nostro beniamino (Classse 1962), ma perché il format che propone è giocoforza ancorato ad un target ormai anziano, che ha scarsa dimestichezza con i social o è perfino ostile a qualunque innovazione proveniente dai social. Non è solo una questione di target però: gli investimenti in termini economici, di tempo, di maestranze, di permessi necessari a realizzare una puntata di “Noos” sono incompatibili con la velocità, il rapido spostamento d’interesse, il lavoro di costante ascolto delle necessità community tipico dei social. Facciamo un esempio pratico: ad oggi la polemica più seguita sui social è quella sulla cerimonia d’apertura dei giochi olimpici di Parigi. La complessità dei rimandi storici, artistici, politici della cerimonia sarebbe un tema perfetto per “Noos”, il problema è che per i tempi oggettivi di preparazione di una supposta puntata con questo tema ci vorrebbero mesi, necessari a reperire gli esperti, i permessi per i musei, spostare la troupe e simili. Nel mentre si prepara il tutto, l’interesse per la cerimonia sarebbe completamente sciamato, e la puntata la guarderebbero i fedelissimi di Alberto Angela, e non un pubblico più generalista intrigato dall’argomento social della settimana.

Quale futuro?

Il ruolo della RAI come tv pedagogico-culturale di stato è ormai in crisi terminale, tanto che la proposta di privatizzarla per renderla una tv commerciale come le altre trova sempre più consensi. In questo contesto un gigante della vecchio modo di intendere la tv come Alberto Angela può ancora trovare spazio, ma sarà uno spazio sempre più residuale e destinato a morire con lui. Nel frattempo i divulgatori dei social sperimentano una crescita importante di prestigio, consensi e interesse da parte dei brand, dimostrando come la domanda di cultura e formazione pedagogica non sia morta, ma sia trasmigrata dal media tv a quello dei social network. Ovviamente il cambio di media significa anche un cambio radicale nel modo di fare divulgazione: più veloce, più immediata, maggiormente attenta al tema virale della settimana, più ancorata alle problematiche sociali del 2024. Il dato di fatto che Alberto Angela non abbia imitatori ed epigoni, mentre Alessandro Barbero ne vanti decine, dimostra come l’adattarsi ai tempi premi, e farlo non significa tradire la propria missione di diffondere sapere.

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