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La caduta della Ferragni apre l’era dei content creator

La caduta della Ferragni apre l’era dei content creator. I brand ormai preferiscono creators più professionali e pagati molto meno. Se questo è sicuramente è un vantaggio per i bilanci dei brand, lo è molto meno per i creatori di contenuti che si trovano a lottare per spartirsi in troppi una torta drammaticamente piccola.

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La caduta della Ferragni apre l'era dei content creator. I brand ormai preferiscono creators più professionali e pagati molto meno. Se questo è sicuramente è un vantaggio per i bilanci dei brand, lo è molto meno per i creatori di contenuti che si trovano a lottare per spartirsi in troppi una torta drammaticamente piccola.
Crediti Foto chiaraferragni instagram

La caduta in disgrazia della Ferragni dopo l’affaire Balocco sembra interminabile. Problemi finanziari, licenziamenti di dipendenti, chiusura dei negozi e brand che scappano al solo sentirla nominare. Se per l’influencer cremonese questo è un dramma, non lo è per decine di recenti e meno recenti content creators italiani, che grazie alla crisi della figura dei mega influencer (di cui la Ferragni è la capostipite) sperimentano un rinnovato interesse dei brand. Andiamo a vedere il perché.

La crisi del modello Ferragni

Fino al Baloccogate la Ferragni non era solo la più famosa influencer italiana, ma il modello a cui tutte le influencer italiane guardavano. Le pose, il linguaggio, la frequenza e la modalità di produzione dei contenuti, ogni cosa facesse la Ferragni diventava automaticamente la norma per il 90% delle altre colleghe ed epigone. Qualche mese prima del Baloccogate tuttavia c’erano già stati dubbi sul fatto che il modello Ferragni fosse effettivamente il migliore: i cachet altissimi richiesti ai brand, l’estrema monotonia dei contenuti proposti e la loro produzione a ritmo industriale, la distanza siderale fra la Ferragni e la sua community, avevano cominciato a generare nel mondo del marketing una domanda che inizialmente girava sottovoce solo fra gli addetti ai lavori: questo modello è ancora sostenibile ma soprattutto conviene economicamente ai brand?

Con la regina si va in pari

Grazie all’inchiesta svolta dall’Antitrust sull’affaire Balocco e sulle operazioni precedenti di commistione fra marketing e beneficienza della Ferragni, i dubbi diventano certezze: il modello Chiara in molti casi porta i brand in pareggio e non in guadagno. Il perché è semplice: i cachet della Ferragni sono molto alti, e l’aumento delle vendite che i brand sperimentano grazie al suo nome non è commisurato alle richieste economiche dell’influencer. Il perché di questa sfasatura fra cachet richiesti e obiettivi raggiunti è meno intuitivo: la megainfluencer stile Ferragni non tara le sue richieste di compenso sui risultati oggettivi che porta a casa a fine campagna pubblicitaria, ma sulla percezione che i brand e i media hanno del suo successo. Detto semplice: la Ferragni, e le sue imitatrici, non hanno un prezziario basato su dati di vendita, ma su quante interazioni fa il loro profilo Instagram e TikTok, su quanto compare il loro nome sulle ricerche di Google, quindi sull’hype collegata al loro nome.

Tutti parlano di dati, ma i dati servono?

Se sentite parlare un qualsiasi addetto marketing in tv, in un podcast o alla radio sentirete che vi sommerge con una marea di dati. Percentuali, grafici cartesiani, diagrammi, sembra che l’intero mondo del marketing si basi su analisi statistico-matematiche più sofisticate di quelle usate dal Cern. In realtà di dati se ne raccolgono milioni, ma non sono quelli che interessano ai brand né tanto meno alle influencer: ciò che conta è la percezione del successo reciproca, ossia quanto il brand percepisce che l’ingaggiare quel determinato grande influencer possa aumentare le quantità di vendita del prodotto. L’influencer a sua volta vende non solo ai followers, ma anche ai brand con cui collabora, la percezione della propria ascesa: i dati che presenta al brand per giustificare il proprio alto ingaggio sono accuratamente scelti per dimostrare come il suo successo sia inarrestabile. Quindi i dati ci sono, ma servono solamente a giustificare scelte basate su presupposti che con la matematica non hanno nulla a che fare: ciò che si quantifica è una pura e semplice percezione di successo, e le percezioni, come tutti sanno, sono quanto di più instabile, volatile e inquantificabile esista.

L’asceca dei content creator

Se sulle grandi influencer all’improvviso cade il sospetto che facciano fatturare meno del loro cachet, i brand a chi si affidano per il loro marketing social? Ai contet creators ovviamente. Ma chi sono questi, cosa li differenzia dalle classiche influencer alla Ferragni? La risposta non è semplice. Rispetto all’influencer, il content creator  si focalizza sui contenuti prodotti più che sulla sua immagine, quindi vende dei contenuti ad alto valore aggiunto per il brand e non il suo lifestyle come fanno le influencer. Questo fa del contet creator un professionista della creazione di prodotti per i social e non la versione idealizzata della persona delle porta accanto, com’era per le influencer alla Ferragni. L’esempio per eccellenza del content creator è Khaby Lame, ma un esempio altrettanto valido eppure solitamente non associato a questa etichetta è quello di Benedetta Rossi, due professionisti che sui social non propongono ai followers la bellezza della propria vita quitidiana, ma dei contenuti specifici che ai followers interessano perché realmente appassionati di quella attività.

Problemi di numero

Quanti sono i content creator e quanti soldi muovono? I dati del 2023 sono lapidari: in Italia le 350.000 persone che si autodefiniscono content creator generano un giro economico di 1 miliardo di euro. Se dividiamo la cifra totale per il numero dei creator, significa che ognuno di loro guadagna  circa 2800 euro l’anno lordi. Più o meno quello che l’agenzia pubblicitaria di paese chiede per fare marketing alla paninoteca appena aperta vicino a casa nostra. Su queste cifre lapidarie si basa l’interesse delle aziende: rispetto ai grandi influencer i content creator costano molto meno, sono più professionali nella creazione dei materiali, ed avendo generalmente community più piccole e altamente fidelizzate ai contenuti sono più attenti al rapporto con la propria fanbase. Questo significa che per gli stessi soldi spesi per ingaggiare la Ferragni (che prima dell’affaire Balocco, costava fino a un 1 milione di euro a campagna), si possono comprare 100 content creators.

Tutto bellissimo per i brand, ma fare il content creator conviene?

Esattamente come per le influencer, il mondo dei content creators è una vasca di squali. Troppi predatori che vorrebbero essere alpha in un mondo dove i soldi sono molto pochi. Ecco quindi aprirsi il mondo dei paradossi: nel tanto pubblicizzato mondo di Onlyfans, solamente il 5% dei creator guadagna sopra i 151 dollari al mese (al cambio attuale, circava 139 euro). A causa degli scarsi guadagni, molti content creators integrano facendo lavori considerati “normali”, che vengono accuratamente tenuti fuori dai loro social, perché -come per l’influencer- il content creator comunque deve vendere ai brand una qualche parvenza di successo, non può certo proporsi come un dopolavorista.

Il futuro

Se la caduta della Ferragni apre l’era dei content creator, la nuova era al momento è più rosea per i brand che per chi sceglie di vivere creando contenuti per i social. La crisi dei grandi influencer infatti è stata sfruttata dai brand per tagliare sui costi delle campagne pubblicitarie sui social, sfruttando le minori richieste economiche di figure lavorative in ascesa. Tolti esempi ultrapompati dai media tradizionali come Khaby Lame, i cui guadagni oggettivamente si aggirano sui 6 zeri, la gran parte degli altri content creator guadagna meno delle “vecchie” influencer, pur lavorando più tempo e confezionando prodotti qualitativamente migliori delle epigoni della Ferragni. La caduta delle mega influencer alla Ferragni è quindi una manna per i brand, ma non si sa se in futuro lo sarà anche per le centinaia di migliaia di creators che sperano di arricchirsi prendendo il suo posto. Morta la regina non è detto quindi che se ne incoronerà un’altra.

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