Attualità
Il dramma dei bambini influencer
Il dramma dei bambini influencer: sovraccarico di lavoro, burnout, sessualizzazione dei contenuti. Il mondo dei baby influencer è il far west. Nonostante il fenomeno sia letteralmente sotto gli occhi di tutti, mancano norme e persino la percezione che ce ne sia una necessità.
Spesso quando si sente nominare la parola influencer si pensa a giovani donne, che promuovono prodotti legati alla skincare, ai viaggi, alla moda o al cibo. Questa percezione è corretta, ma accanto a ragazze e donne maggiorenni una fetta non piccola dei content creator sui social sono bambini e preadolescenti. Minorenni dai 6 ai 14 anni che promuovono H24 giocattoli, cartoni animati, cibo e similia. Ovviamente non lavorano da soli: a filmare, editare e pianificare contratti e strategie di marketing sono i loro genitori.
Il lavoro minorile in diretta
Come sappiamo il lavoro minorile in Occidente è vietato, e questa la riteniamo una conquista fondamentale della nostra civiltà dei diritti. Tuttavia c’è un’eccezione significativa a questa regola: il mondo del cinema, della tv e della pubblicità. Con una serie di leggi ad hoc in questi mondi è permesso che i bambini lavorino (sotto la supervisione di manager e genitori ovviamente) protetti da speciali tutele. Il mondo dei content creator si è rifatto spontaneamente a questa eccezione, senza tuttavia essere stato normato in alcun modo dagli stati né avendo proposto alcuna autoregolamentazione. Quindi, per quanto possa sembrarci strano, ogni qual volta abbiamo visto una sponsorizzata sui social con un bambino questo lavorava senza alcuna tutela giudiridica, esattamente come i bambini pakistani nei campi di cotone (tanto per fare un’analogia giuridica subito comprensibile).
Il problema non è solo il lavoro senza tutele
Il problema però non è solo il lavoro non normato, o l’aggirare il limite di 13 anni imposto dai social per aprire un profilo al bimbo-lavoratore intestandolo ai genitori, il problema è che i content creator minorenni sono esposti sui social alle medesime dinamiche dei loro colleghi adulti: hatespeech, stalking, cyberbullismo e in aggiunta a questo la pedopornografia. I content creator minorenni vengono infatti attenzionati da community di pedofili, che chiedono insistentemente foto osé, creano deepfake erotici dei bambini-influencer e provano ad adescarli. Un pericolo spesso ignorato o minimizzato dai genitori manager, che accecati dai guadagni e pensando di avere il controllo totale sul proprio pargolo-lavoratore ignorano la possibilità che questo possa avere contatti con i propri followers al di fuori del controllo familiare.
L’infanzia negata e il burnout
Secondo la doppia inchiesta condotta dal New York Times e dal Wall Street Journal, dietro al mondo dorato mostrato dai bambini influencer sui propri profili social, si nasconderebbe una realtà fatta di sovraccarico di lavoro, sessualizzazione e casi di disturbo mentale dovuto a sovraccarico da stress. L’infanzia negata è dovuta ai ritmi lavorativi imposti dai genitori manager ai figli content creator: dalle 4 alle 8 ore di lavoro giornaliere, necessarie a mantenere il ritmo di 2 foto e 2 reel al giorno (o di 2 video al giorno su Youtube) necessari a soddisfare l’algoritmo. A queste ovviamente si aggiungono quelle scolastiche e quelle delle attività extrascolastiche, generando il paradosso di bambini che arrivano a lavorare dalle 8 alle 14 ore al giorno, quanto e talvolta più di lavoratore adulto. Il burnout diventa quindi la triste risposta a questo sovraccarico di lavoro.
La sessualizzazione
Ancora più inquietante è il fenomeno della sessualizzazione dei contenuti pubblicati da questi piccoli content creator, poiché studiata dai genitori o dai manager scelti dai genitori per i propri figli: i contenuti ambigui sono difatti divenuti una norma (specie durante e dopo la pandemia), e sembrano tarati appositamente per aumentare i followers adolescenti e adulti dei bambini influencer.
Nonostante le inchieste del Wall Strett Journal e del New York Times abbiano fatto scandalo negli USA, costringendo la politica a discutere del problema e a cercare di produrre una normazione del campo, la stampa italiana ha per lo più ignorato le inchieste, pensando che evidentemente in Italia il problema non esista, nonostante i nostrani Ferragnez siano stati fra i primi a fare dei propri figli delle presenze fisse (e remunerative) dei loro social.
Dobbiamo quindi sperare che qualche anima volenterosa faccia un’inchiesta analoga qui da noi, analizzando il contesto dei social tricolori e i suoi baby influencer, costringendo così la politica ad occuparsi del problema.