Attualità
E’ finita l’era woke?
E’ finita l’era woke? La fine dei sussidi statali ai prodotti culturali attenti alle minoranze è la fine di un’era, segnata da luci ed ombre. La quantità di prodotti mediocri creata per aver accesso ai sussidi DEI ha pesantemente screditato tali programmi, creando perfino minoranze sempre più rumorose contrarie persino alla sola presenza di personaggi appartenenti ad una minoranza come wokismo.
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Dai social ai film, passando per i videogiochi, molti credono che l’era dell’inclusività sia finita, e che si ritorni alla “normalità” di prima degli anni 2000. Dalla Disney fino a Meta, oggi gran parte delle multinazionali fino a ieri impegnate a dimostrarsi campioni della promozione della diversità e dell’inclusione stanno cambiando direzione, sostenendo che è ritornata l’epoca della libertà di parola e della meritocrazia, vediamo dunque che succede.
Amore e portafoglio
Partiamo dal dato di fatto: gran parte delle multinazionali dell’industria culturale (dai videogiochi al cinema) stanno smantellando o drasticamente riducendo i loro programmi di promozione della diversità e di inclusione (in codice DEI: acronimo diversità, equità e inclusione). Questi programmi ci erano stati venduti qualche anno fa come un’improvvisa folgorazione delle aziende statunitensi sulla via di Damasco dei diritti umani, in realtà la questione aveva pesanti risvolti economici: le multinazionali che applicavano il programma DEI, rivevano finanziamenti dal governo USA per i loro prodotti.
Con il recentissimo cambio di presidente degli USA e il conseguente taglio dei finanziamenti, le aziende possono continuare a portare avanti i loro programmi DEI, però non avranno più alcun finanziamento per farlo. Ecco quindi che all’improvviso aziende come META annunciano pesanti tagli a tali programmi, dato che senza finanziamenti diventano una mera spesa in bilancio, non più tollerabile dagli azionisti.
Posto che vai, censura che trovi
Il problema del DEI però non riguarda solo le polemiche interne al mercato occidentale. I programmi di inclusione con i relativi prodotti che promuovevano ed esaltavano le minoranze sessuali, etniche e di genere, hanno sempre rappresentato un grosso problema per l’industria culturale: indispettiscono i mercati africani, arabi ed orientali. Basti pensare alla recente polemica nel mondo dei videogiochi su “Kingdom Come Deliverance 2” o sul film “Emilia Pérez”: nel primo caso, nel videogioco è possibile far scegliere al protagonista di avere una relazione omoerotica, nel secondo il protagonista del film è una transessuale messicana.
Dove sta il problema? Semplicemente i due prodotti sono stati minacciati di essere vietati nei paesi arabi, e in Cina possono arrivare solo con pesanti tagli e rimaneggiamenti. Questo significa perdite per centinaia di milioni di dollari, dato che la Cina ormai è un mercato fondamentale per il successo di film e videogiochi occidentali, e il mondo arabo lo stesso. Se prima le perdite economiche di tali mercati venivano risolte dai sussidi statali USA, adesso che non ci sono più la paura delle aziende è quella di precludersi grossi guadagni per pura questione di principio, e sappiamo benissimo quanto le aziende quotate in borsa siano allergiche ai principi che non generano dividendi.
Il DEI e la mediocrità
I problemi dei programmi DEI, però, non si sono presentati solo con i mercati esteri. La questione è che i sussidi statali hanno generato la perversa abitudine delle grandi multinazionali dell’intrattenimento di lanciare prodotti mediocri. Pensiamo alle numerose serie Netflix con coppie non etero buttate nelle trama a casaccio, oppure a videogiochi come “Concord” e “Dragon age Veilguard” dove minoranze di genere venivano inserite senza alcun contesto nel gioco solamente per sbandierarlo come inclusivo e attento alle minoranze.
La quantità di prodotti mediocri, e perfino senza alcun senso logico, gettati sul mercato per avere diritto ai fondi, ha screditato pesantemente questo genere di programmi agli occhi dei consumatori , inducendo una stanchezza da mediocrità diffusa. Oltre a questo, si sono creati piccoli ma agguerriti gruppi online sempre più ostili a qualunque presenza di minoranze nei prodotti culturali. Persino persone molto favorevoli ai programmi DEI si sono lamentate della mediocrità diffusa generata dalla questione sussidi, e sperano che la loro eliminazioni sproni le multinazionali a creare prodotti culturali dove la qualità si coniughi alla sensibilità per i diritti dei gruppi storicamente discriminati.
Gay è DEI?
La questione in Occidente si è così incacrenita da arrivare a paradossi e guerre social demenziali. Prendiamo il caso del film “Emilia Pérez”: il solo fatto che la protagonista sia una transessuale fa etichettare il film come Woke, quando la sua tematica non è la promozione della transessualità ma un tentativo di narrare il complesso rapporto fra Messico e narcotraffico, e per quanto riguarda la sfera personale della protagonista quella fra identità di genere e redenzione dal passato di violenza. Temi che c’entrano poco nulla con i programmi DEI. Ancora più demenziale è il recentissimo caso di Kingdom Come Deliverance 2, un gioco di ruolo medievale in cui i programmatori danno la possibilità al giocatore di intessere relazioni omosessuali, bisessuali o eterosessuali a seconda di ciò che si preferisce.
Anche qui la possibilità di scelta non c’entra nulla col DEI: è una possibilità che i videogiochi di ruolo hanno sempre avuto, fin dagli anni ’90, quando il DEI e il wokismo non esistevano. Minoranze etniche, di genere e di orientamento sessuale, sono sempre state rappresentate nei film, nei videogiochi e nella musica, e questo ben prima dei programmi DEI. Il problema è, casomai, come vengano rappresentate, cioè se il prodotto culturale sia un mero spot promozionale per l’inclusione oppure se queste minoranze siano presenti perché inserite in un progetto narrativo che ne vuole raccontare la complessità, le contraddizioni o semplicemente darci uno squarcio sulla loro situazione.
Il futuro
Lo smantellamento dei sussidi statali e le problematiche generate dai programmi DEI sui mercati esteri, nonché in quello domestico, diminuiranno drasticamente i prodotti culturali che hanno lo scopo di promuovere le minoranze. C’è una stanchezza diffusa intorno ai temi dell’inclusione, dovuta alla mediocrità di molti prodotti a tema gettati sul mercato e alle continue polemiche online cavalcate dalle stesse aziende per venderli, e questa stanchezza è talmente profonda che ci vorranno anni per farla passare.
Non bisogna pensare però che l’epoca DEI non lascerà tracce: certe attenzioni verso le minoranze sono ormai considerate lo standard minimo per i prodotti culturali, e la presenza nei team e nelle troupe di appartenenti alle minoranze necessariamente implicherà maggiore attenzione alla loro sensibilità e ai loro problemi. Sicuramente un’epoca è tramontata, ma la sua eredità continuerà a influenzare l’industria culturale occidentale per i decenni a venire.