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Interviste

IndieGesta Talks Jazz – INTERVIEW WITH Danny Grissett: Keep ears and mind open to give music what it needs

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One thing I always remember Herbie Hancock expressing is that we are human beings first.  The idea of defining ourselves as a musician first is limiting.  We are human beings first and making music is what we do. It stresses the importance our humanity, our life experiences, our relationships with other humans and many other parts of life. And those things deepen our musical expression. 

Il nostro appuntamento settimanale Indie-Gesta Talks Jazz prosegue con Danny Grissett, losangelino di nascita, newyorkese d’adozione e ora residente in Austria, come Rob Bargad e Jim Rotondi, precedentemente intervistati. Interessante notare come la patria di Mozart, Haydn, Mahler, Schubert, Schönberg e molti altri è ora una delle succursali d’elezione del grande jazz. Alla capitale, decretata dal rinomato “The Economist” una delle città più vivibili al mondo, Grissett ha dedicato la ballad in Re minore “Viennese Summer”, composizione originale suonata con gli storici colleghi, Vicente Archer al basso e Marcus Gilmore alla batteria, nell’album del 2011 “Stride”. Grissett ha iniziato da bambino la pratica pianistica e poi proseguito con gli studi accademici più prestigiosi, accompagnati da una carriera al fianco dei Giganti del Jazz. A coronare un percorso da “Hall Of Fame”, le pubblicazioni come leader con le labels che hanno fatto scuola nella storia del jazz e che abbiamo spesso incontrato nelle puntate precedenti di questa rubrica: per l’etichetta Criss Cross nel 2005 ha inciso il disco Promise, nel 2007 Encounters, nel 2008 Form, nel 2011 Stride, nel 2015 In-Between e per l’etichetta Savant nel 2017 Remembrance, di cui parleremo, e a cui si aggiungono le innumerevoli registrazioni come sideman per Universal, HighNote, Brooklyn Jazz Underground e molte altre.

Su Youtube sono tanti i video delle sue performance in tutto il mondo ma un particolare che mi ha colpito è che la sua pagina Spotify conta quasi 105,000 ascoltatori mensili e la sua versione della celeberrima song “Two Sleepy People” (presente nel sopracitato album “Stride”) annovera ad oggi quasi 18 milioni di streaming. E per le dinamiche della jazz industry (ancora oggi di nicchia anche quando “mainstream”), è segno di un successo planetario! Tra poche ore salirà sul palco del Camera Jazz & Music Club di Bologna, in trio con Paolo Benedettini e Adam Pache, jazzisti talentuosi che abbiamo precedentemente citato poichè hanno accompagnato altri protagonisti di questa rubrica.


INTERVISTA (English version below): 

Hai recentemente suonato in Turchia, Georgia, Est e Nord Europa e in questi anni ti sei esibito in quasi in tutto il mondo, oltre all’Europa e agli States, Giappone, Sud Africa, Sud America… La Musica è un linguaggio universale: qual è il tuo personale “modus” per arrivare ad un interplay con musicisti da tutto il mondo? Come le diverse culture influiscono sul tuo approccio musicale?

Il mio approccio non è molto influenzato dalle varie culture dei paesi in cui suono, non in modo conscio per lo meno. Il mio suonare è per la maggior parte un’espressione che è influenzata da esperienze di vita, influenze musicali, e soprattutto dalla mia black American culture.  Se ci sono variazioni nel mio sound in base a dove mi trovo nel mondo, immagino siano sottili e ampiamente  reattive ai musicisti con cui sto facendo musica. Non mi inserisco mai in una situazione musicale con l’idea di cambiare il mio approccio per qualche motivo. Tengo le orecchie e la mente aperte per dare alla musica quello che serve perché sia bellissima, racconto così la mia storia sperando di condurre l’ascoltatore in questo processo. E’ l’unico modo per avere un dialogo, musicale e non.

 

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Ho visto alcuni video in cui ti esibisci come Guest Star dell’imponente Big Band della Radio Televisione Serba, ed è notevole il modo in cui dirigi e conduci la band, con un tocco sulla tastiera elegante, dove necessario minimale, e al tempo stesso emergi con grande carisma in soli dai fraseggi “statuari”, fluidamente assertivi. Sembra proprio tu abbia portato ad un livello superiore la citazione di Miles Davis “Non suonare quello che c’è (scritto) ma suona quello che non è scritto” e quella di Thelonious Monk “Non suonare ogni nota o in ogni momento….quello che non suoni può essere più importante di quello che suoni” !

Grazie. Ho suonato per molti anni nelle big band ma mai tanto quanto io abbia suonato in formazioni più piccole. E quella di cui parli era la prima volta in cui mi esibivo in una big band, in cui poi suonavo la maggior parte delle melodie. E’ stata un’esperienza incredibile! E come guest della band mi inserivo in una situazione dove loro suonavano insieme già da anni e avevano una propria chimica intrinseca. Quindi è così, provo a prendere la mia storia, il mio sound, la mia musica e aggiungerla a ciò che loro già hanno. Ma voglio anche ascoltare ed esperire quello che loro in quel momento stanno portando alla musica che suoniamo. E’ quello che si dice “active listening”, un ascolto attivo, ed è difficile ascoltare davvero e suonare allo stesso tempo. E’ stato proprio bello.

Nella tua carriera hai suonato con diverse big band e formazioni celebri sia come sideman che come leader ma prediligi soprattutto la formazione in trio, come stasera al Camera Jazz Club: come cambia il tuo approccio in base alle diverse formazioni? Per quanto riguarda ad esempio gli arrangiamenti, i soli, il tuo feeling…

Diciamo che il mio ruolo certe volte dipende dalla grandezza e dal tipo di ensemble. Nelle big bands ed anche in alcune band che hanno strumenti orchestrali, gran parte della musica è composta (da altri compositori come nel caso degli standards, ndA) e quindi il mio ruolo è diverso, meno “interattivo”. Questo non avviene nel caso dei gruppi più piccoli. E quando conduco il gruppo, lo dirigo, chiaramente. Stasera suonerò sia la mia musica che degli standards con Adam e Paolo (Adam Pache alla batteria e Paolo Benedettini al contrabbasso, ndA). Ma è importante anche che io sia flessibile abbastanza da preparare un repertorio che funzioni bene per noi tre e ci permetta di esprimerci, essere noi stessi con un certo comfort. Allora ne uscirà della vera musica. Ed è questo che ha più possibilità di raggiungere l’audience.

 

Hai studiato al prestigioso Thelonious Monk Institute of Jazz Performance dell’University of Southern California/ Thornton School of Music con Maestri come Herbie Hancock, Terence Blanchard, Bobby Watson, Carl Allen, Jimmy Heath e molti altri: che cosa hai portato con te e durante la tua carriera della loro lezione ?

Beh, oltre ad alcuni aspetti tecnico-musicali, ho portato con me la loro devozione, il loro impegno, serietà per il loro lavoro e per questa musica. Ognuno dei grandi musicisti e Maestri da cui ho avuto il privilegio di imparare è alla ricerca costante di qualcosa di nuovo da imparare e suonare. Sono ancora “studenti di musica” a loro modo. Ah, una cosa che ricordo sempre che Herbie diceva è che prima di tutto noi siamo esseri umani. E l’idea di definirci prima come musicisti è limitante. Prima di tutto siamo esseri umani e fare musica è quello che facciamo. Nell’essere aperti a pensarci così , si pone l’accento sull’importanza della nostra umanità, le nostre esperienze di vita, le nostre relazioni con gli altri esseri umani e molti altri aspetti della Vita. E tutto ciò approfondisce la nostra espressione musicale.

Una delle molte recensioni su di te, in particolare quella di Downbeat, dice che tu utilizzi:  “stratagemmi  tratti da Mulgrew MillerHerbie Hancock e Sonny Clark per raccontare storie convincenti che riportano una propria riconoscibile firma armonica e ritmica.” Cosa ne pensi?

Loro sono tre pianisti che amo assolutamente! Certo, sono stato influenzato da loro come anche da altri.  E’ sempre interessante sapere come gli ascoltatori sperimentano la mia musica, ascoltare quello che loro percepiscono attraverso la mia espressione. E certe volte sentono cose che mi sorprendono.

Ad un certo punto della tua carriera ti sei trasferito da Los Angeles a New York, dove hai iniziato a suonare con Vincent Herring e Vanessa Rubin, tra gli altri. Le due metropoli sono anche due diversi “grandi mondi”: com’è stato quello switch nell’ambiente jazz?

E’ stata un’esperienza pazzesca. La scena jazz di New York è unica, diversa da ogni altro contesto che ho vissuto. Da una parte l’enorme numero di grandi musicisti che sono così dediti alla musica e alla propria arte è impressionante. Ma dall’altra è un’infinita fonte d’ispirazione. Ti senti davvero come parte di qualcosa molto più grande di te. Almeno è come mi sento io lì.  Ed era incredibile vivere in un posto dove ogni benedetta notte potevo andare a sentire molti dei miei eroi musicali contemporanei.  Praticamente ogni sera in cui esci devi decidere quale performance ti perderai, più che quella che stai andando a vedere!  E non è per niente facile! That ain’t easy!  Per non parlare dell’energia che c’è in quella città.  E’ molto difficile per me trasmetterlo a parole.

2013, Danny Grissett Trio @Smalls Jazz Club, NYC:

 

Sono molti i nomi leggendari con cui ti sei esibito ma quali sono quelli che più ti hanno influenzato?

In ordine sparso direi assolutamente Nicholas Payton, Tom Harrell, Jeremy Pelt, Ron Carter, Billy Higgins, John Heard.

Nell’aprile 2017 hai registrato a New York un grande album in tributo a tuo fratello, “Remembrance” (Savant Records), con Dayna Stephens al sax tenore e soprano, Vicente Archer al contrabbasso e Bill Stewart alla batteria. Il disco è stato accolto dalla critica molto positivamente. Ascoltandolo quello che emerge è anche una straordinaria antologia di universi sonori. Puoi raccontare il lavoro che è stato fatto ?

L’album è una delle registrazioni più personali che io abbia inciso. Oltre alla perdita di mio fratello maggiore, c’erano altre “cose”, relazioni che avevo recentemente perso che si erano aggiunte al feeling e alla profondità di quell’album. Se la perdita non ti fa star bene, io sono grato per le lezioni che ne abbiamo tratto. E sono anche grato per i ricordi che rimangono con noi.

 INTERVIEW// English version:

Our “Indie-Gesta Talks Jazz” weekly appointment continues with Danny Grissett, born in Los Angeles, for a long time based in New York and now in Austria, as Rob Bargad and Jim Rotondi, previously interviewed. It is interesting that Mozart’s, Haydn’s, Mahler’s, Schubert’s, Schönberg’s and many others’ motherland is now one of the “Great Jazz” ’s  branches of choice. To the capital, decreed by the acclaimed “The Economist”, one of the most liveable city in the world, Grissett has tributed the original Dminor ballad “Viennese Summer”, played along with longtime colleagues Vicente Archer on bass and Marcus Gilmor on drums, for the 2011 album record “Stride”. Grissett began playing piano as a child and soon he followed up with the most prestigious academic studies, with a bright career alongside Jazz Giants. To crown an “Hall Of Fame path”, many records as leader with the labels who set a trend in Jazz History and which we have often encountered in “Indie-Gesta” previous episodes. By Criss Cross label, in 2005 he has recorded “Promise”, in 2007 “Encounters”, in 2008 “Form”, in 2011 “Stride”, in 2015 “In-Between” and for Savant Rec. in 2017 “Remembrance”, about which we will speak more ahead, not to mention several recordings as a sideman for Universal, HighNote, Brooklyn Jazz Underground, and many others.

There are many videos on YouTube about his brilliant and notable performances, all over the world, but a thing that impressed me is that his Spotify counts near 105k monthly listeners and his “Two Sleepy People” famous song version (in aforementioned “Stride”) has been streamed 18 mln times. And for jazz industry dynamic is a lot, a huge success! In few hours Danny Grissett will be on stage at Camera Jazz & Music Club in Bologna, in trio with Paolo Benedettini on bass and Adam Pache on drums.

INTERVIEW

You’ve recently been playing in Turkey, Georgia, East and North Europe and you’ve performed pretty all around the world, Europe, Japan, South Africa, South America…Music is an universal language: what is your personal “modus” to interplay with musicians from all over the world? 

My approach isn’t affected so much by the various cultures of the countries where I perform in a way that I am aware of.  My playing is for the most part an expression that is informed by my life experiences, musical experiences, musical influences, and most of all my black American culture. If there are variations in my sound based on where I am in the world, I imagine that they are subtle and largely reactionary to the players or player with whom I’m making music. I never go into a musical situation with preconceived idea about changing my approach for some reason. I keep my ears and mind open to give the music what it needs to be as beautiful as it can be, hopefully moving the listener in the process. I keep my ears and mind open while expressing my story. That’s the only way to have a dialogue, musical or otherwise.

 I watched some videos of you playing as “Big Band RTS Serbia” ’s Guest Star and it’s impressive the way you lead the band, with classy and (where it’s needed) minimal touch and yet with stately and strong solos. Sounds you take the Miles’ quote: “Don’t play what’s there; play what’s not there” and the Thelonious Monk’s “Don’t play everything (or every time) let some things go by… What you don’t play can be more important than what you do”….. to the next level! 

Thank you.  I’ve played in big bands over the years, but not anywhere near as much as I have played in smaller groups.  And this was the first time I was featured with a big band where I was playing most of the melodies.  It was a great experience!  As a guest with that band, I was coming into a situation where they have been playing together for years.  They have their own chemistry.  Again, I’m trying to take my story, my sound, my music and add it to what they have.  But I also want to listen and experience what they are bringing to the music.  It comes back to active listening. It’s hard to really listen and play at the same time.  I had a great time. 

You’ve played with many big bands and famous bands both as sideman and leader but you often play “ in trio” too, as Friday at “Camera Jazz Club” in Bologna: how does your approach change in different formations? I mean, the arrangements, solos, the feeling…

Well, sometimes my role depends on the size and type of ensemble.  In big bands and even some bands that have orchestral instruments, a large portion of the music is composed and so my role is different, less interactive, let’s say.  This is not the case in smaller groups.  And when I’m leading the group, I have to lead, clearly.  I plan to play my music as well as a few standards with Adam and Paolo.  But I also must be flexible enough to settle on a repertoire that works well for us three and allows us to be ourselves with some level of comfort.  Then the real music can come out.  That’s what has the best chance to reach the audience.

 You studied at at the “Thelonious Monk Institute” at the University of Southern California Thornton School of Music with Masters as Herbie Hancock, Terence Blanchard, Bobby Watson, Carl Allen, Jimmy Heath and many others… what have you carried of their lesson during your career? 

Well, aside from a few technical musical things, I’ve carried with me their commitment, seriousness, and dedication to their craft and to this music.  In their own ways, any one of the great musicians and masters of this music that I had the privilege to learn from are constantly searching for something new to learn or play.  They are also students of music in their way. And one thing I always remember Herbie expressing is that we are human beings first.   The idea of defining ourselves as a musicians first is limiting.  We are human beings first and making music is what we do.  In being open to think of ourselves in that way, it stresses the importance our humanity, our life experiences, our relationships with other humans and many other parts of life.  And those things deepen our musical expression. 

A Downbeat review says you employ “strategies drawn from Mulgrew MillerHerbie Hancock and Sonny Clark to tell cogent stories that carry his own harmonic and rhythmic signature.” What do you think about it? 

Those are three pianist I absolutely love!  I have been influenced by them, as well as others.  It’s always interesting to know how listeners experience my music, to hear what they hear through my expression.  Sometimes they hear things that surprise me.

At some point of your career you moved from LA to NYC, where you started playing with Vincent Herring and Vanessa Rubin, among others. Los Angeles and New York, those are two different “big worlds”: how was the switch in the jazz environment?

It was an amazing experience.  The NY scene is unlike any scene I’ve ever experienced.  The sheer number of great players who are so dedicated to the music and their craft is overwhelming, on one hand.  But on the other hand, it is an endless source of inspiration.  You really feel like you are part of something so much bigger than yourself.  At least that is the way that I feel.  And it was exciting to live in a place where on any given night I could go hear many of my favorite contemporaries and musical heroes.  Every night you go out you must decide which performance you are going to miss more than which performance you are going to see.  That ain’t easy!  Not to mention there is the energy of the city.  It’s really hard for me to put into words.

 Several are the renowned names you have featured with, but what are the ones that have affect you the most?

In no particular order, Nicholas Payton, Tom Harrell, Jeremy Pelt, Ron Carter, Billy Higgins, John Heard.

You recorded in April 2017 in New York, a great album, “Remembrance”, in tribute of your brother for Savant Recs, with Dayna Stephens on tenor and soprano, Vicente Archer on bass and Bill Stewart on drums. The record has been more than well received by critics. Listening to it emerges an extraordinary anthology of sound universes. (If you want )can you tell something about the work on it? 

That recording was one of the most personal recordings I have ever made.  In addition to losing my big brother, there were other “things,” relationships I had recently lost that added to the feeling and depth of that recording.  While loss doesn’t feel good, I’m grateful for the lessons we learn from it.  And I’m grateful for the memories that remain with us. 

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