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Interviste

Mei, Rubrica. #NEWMUSICTHURSDAY. Intervista esclusiva a Boetti

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Di Marta Scaccabarozzi

Nel 2018, a Prato, Damiano e Meti davano vita a Boetti, duo cantautorale e alternativo tra chitarre elettriche e suoni anni ’90. Li abbiamo incontrati in occasione della release del nuovo singolo “Golden Boy”, disponibile da domani.

 

Ciao Boetti, domanda spaccaghiaccio più difficile – nella risposta – di quello che sembra: come state, a meno di 24H dal ritorno sulle scene e dalla pubblicazione del vostro secondo singolo?

Tremebondi per l’ansia, ma anche per la gioia di pubblicare una nuova canzone, nella speranza che possa svolgere adeguatamente il proprio compito. L’uscita di Psicomadre ci ha inaspettatamente regalato un po’ più di saggezza, di respiro paziente in reazione alle conquiste e i fallimenti attesi. Il nostro percorso artistico è fatto di tanti piccoli mattoncini, per questo dobbiamo imparare sempre più a bilanciare lo stress agonistico con il giusto spirito di festa.

“Psicomadre” qualche mese fa, oggi “Golden Boy”: da madre a figlio, se così possiamo azzardare, vedendo un collegamento quasi “parentale” tra le parti. E’ un collegamento semantico che ci può stare, nella trama generazionale che sembra collegare i due brani?

La richiesta fatta in/a “Psicomadre” era quella di salvarci da noi stessi a livello intimo, individuale. Se proprio dovessimo unire tematicamente queste due canzoni così diverse tra loro, potremmo dire che in “Golden boy” c’è invece un senso di smarrimento identitario a livello collettivo. Se “Psicomadre” è guardarsi dentro, “Golden boy” è guardare (e guardarsi da) fuori.

“Golden Boy”, in uscita domani su tutte le piattaforme digitali, è un brano che sa di hit e di una generazione persa a rincorrersi nel tentativo di ritrovarsi. Ce ne parlate un po’ più approfonditamente?

La provincia italiana, per quanto grande o piccola sia, è stata e sempre sarà croce e delizia. Se ci nasci, se cresci all’interno delle sue dinamiche sociali ristrette, quasi (letteralmente) esclusive nel loro conformismo etico ed estetico, accumuli un bagaglio di esperienza preziosa e che ti porti dietro tutta la vita. Ad esempio: quando sei ragazzino ti prendono per il culo per l’acne o per un paio di scarpe. Poi diventi grande e una sera in centro ti capita di vedere che chi un tempo ti ha ferito adesso magari ha perso i capelli, o indossa abiti inguardabili, e forse addirittura convive con la tipa a cui tu hai dato il primo bacio e che dopo di te si è limonata in discoteca il ragazzo che andava al liceo nella classe accanto alla tua. Questo vuol dire “provincia”: conoscersi tutti, vivere così ignari e spensierati nel nostro hortus conclusus da finire per credere che quello sia il mondo, che quella sia la realtà. E che noi in tutto questo siamo bellissimi, famosissimi, infallibili, aurei.

Ma voi, in qualche modo, vi sentite di appartenere a qualcosa? Una scena, una generazione, un movimento che nel sottobosco serpeggia – sempre che esista?

Umanamente parlando ci sentiamo di appartenere a coloro che vivono la vita nei limiti dell’onestà, che non restano indifferenti davanti alle disuguaglianze e alle violenza verbale, che non si vergognano di mostrarsi per quello che sono, anzi rifiutano le consuetudini del corpo perfetto, della vita da sogno etc. Praticamente lo stesso potremmo dirlo a livello artistico. Quando ci esprimiamo lo facciamo per incorniciare un dolore e per farlo dobbiamo cercare di essere più onesti possibile, senza cadere nella tentazione di scrivere qualcosa di artefatto pur di attirare le attenzioni e i favori del pubblico.

Quanta responsabilità hanno i “Golden Boy” di cui parlate rispetto alla degenerazione valoriale (possiamo chiamarla così?) che denunciate nel brano? Nel senso, siamo pur sempre i figli dei nostri padri, e in “Psicomadre” già emergeva la necessità di un riferimento quasi disperato a figure che potessero proteggerci dal caos della Storia. E alla fine, qualche comportamento da “Golden Boy” lo abbiamo assunto tutti.

Per quanto noi ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti (perdonaci la semicit.). Noi siamo figli dei nostri padri, nel senso generalmente astratto del termine, e il nostro spirito di edipica adorazione/emulazione ha fatto sì che riproducessimo la società così come l’abbiamo vista da loro. Ma questo è un difetto congenito nazionale, se non mondiale, comunque fisiologico nell’essere umano. Nel nostro mondo occidentale poi, dove regna il culto del possesso, l’acquisto e il consumo compulsivo dei beni materiali, tutto è esasperato alla massima potenza. Esco di casa perché possiedo, perché ho, e tutti lo devono sapere. Il punto non sta nell’estirpare il Golden boy che è in noi, ma almeno nell’essere consapevoli di quanta tristezza e quanti irrisolti ci siano dietro questi nostri atteggiamenti.

Come si esce dall’apatia e dall’inettitudine da “Golden Boy”, secondo voi? Esiste una via d’uscita reale, oltre l’urlo della denuncia?

È difficile uscire dal matrix dei Golden boy. Essere riconosciuti e riconoscere tutti, ogni nostro gesto o azione notata, apprezzata, trasformata in gossip, è una droga per cui non esiste rehab.

Consigliate ai nostri lettori un’attività utile da fare prima, mentre e dopo aver ascoltato, domani, “Golden Boy”. Qualsiasi cosa vi venga in mente!

Il programma ideale per apprezzare al meglio questa canzone è: prima di tutto vestirsi bene per uscire in centro a fare un aperitivo. Successivamente consigliamo di passare una serata in gruppo con tanti tanti amici, tra alcool e risate, e poi tornare a casa all’alba da soli, chiusi nella desolazione della propria auto.

E poi? Dopo la pubblicazione di “Golden Boy” che succederà? Ci date qualche anticipazione?

Poco dopo l’uscita del singolo pubblicheremo sul nostro canale YouTube anche il videoclip ufficiale, interamente autoprodotto e realizzato con la collaborazione di Manon Azar, un amico regista persiano trapiantato a Firenze. Per l’autunno arriverà anche il terzo singolo, che anticiperà l’uscita ufficiale dell’album. Ma ciò che più ci manca e che più di tutto proveremo a riprenderci è suonare sul palco, spaccare corde e bacchette, sputare nei microfoni. Il nostro unico habitat naturale.

 

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Crediti foto: Mei