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Musica Italiana, INTERVISTA. Irene Ghiotto: “Superfluo è un disco che picchia e che suona anni ’80”

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Superfluo: intervista a Irene Ghiotto

Superfluo è il titolo del nuovo album di Irene Ghiotto. La cantautrice vicentina, vincitrice di Area Sanremo nel 2012 e in gara alla 63° edizione del Festival di Sanremo tra le Nuove Proposte, ha fatto il giro di se stessa ed è tornata dopo qualche anno di assenza più consapevole e determinata con un disco contemporaneo, ma che non insegue le mode. Un disco suonato, che “picchia” e strizza l’occhio a sonorità anni ’80. Un disco libero, “importante”, “colorato” e “da sottolineare”: insomma un disco Super Fluo!

Per OA Plus ho avuto il piacere di intervistarla.

INTERVISTA

Il 25 ottobre è uscito il tuo secondo album Superfluo. Un titolo che si legge “supeflùo” ma che può essere letto anche come “superfluo”: da dove è nato questo titolo e cosa volevi comunicare?

Ho studiato questo “leggerissimo” esame di Letteratura Polacca. Mentre studiavo stavo anche scrivendo i testi del mio nuovo album. Ho letto un sacco di saggi e nel leggere uno di questi, casualmente, ho incontrato la parola “superfluo” (leggevo in italiano ovviamente) e ho notato che erano riusciti ad andare a capo dividendo la parola in due pezzi: super e fluo. Assorbita dalla lettura mi son resa conto che avevo letto mentalmente “superflùo”. È stata un po’ una casualità e poi ci ho costruito un concetto. Ero alla ricerca di un titolo che dovesse essere sintetico e riuscire a racchiudere una trasversalità e un po’ un’incoerenza simpatica che mi rappresenta: cioè io sono sia la cantautrice triste, emozionale, intima, ma anche la cantautrice giocosa, spregiudicata e appunto simpatica.

Suggerisce diverse letture ma allo stesso tempo nasce da un obiettivo preciso…

Si, quindi mi sono chiesta: come faccio a trovare qualcosa che unisca in unico concetto la serietà con cui faccio il mio lavoro e l’intensità di alcune tematiche, assieme alla mia tendenza di vivere con questo spirito giocoso? Sbagliando a leggere mi sono accorta che spostando l’accento diventava una parola fortissima: perché un fluo è già fluorescente. Quindi, per esempio, sottolineo con l’evidenziatore e so che devo ricordarmi le cose più importanti. Se poi addirittura è super… è ancora più fluo del fluo! Vuol dire che da una parte questo disco è contemporaneamente molto importante, almeno per me, e colorato; da sottolineare. Dall’altra ha una sua utilità nell’essere un ornamento estetico che migliora la qualità di un’immagine, di un luogo; che è il luogo della musica, di Irene.

Irene Ghiotto Superfluo copertina

In questo disco, molto contemporaneo ma che non insegue la moda del momento, troviamo un Irene più forte e consapevole, sia come artista che come donna. Come e quando sono nate le canzoni di Superfluo?

Alcune canzoni sono nate mentre stavo suonando il tour vecchio, quasi come una prosecuzione naturale dell’album precedente. Altre sono nate dopo, ma sono brani che hanno almeno due anni di vita. Io non scrivo tantissimo e tendo a non buttare niente, quindi a livello testuale sono un colpo di coda di Pop simpatico con venature tragiche, però la produzione e la scrittura hanno un impeto e una forza che secondo me l’altro disco non aveva avuto.

Sento che sono il frutto di una crescita mia personale, di una tendenza sempre più forte che ho di staccarmi dalle mode e di rendermi indipendente dai gusti degli altri, cercando solo di compiacere il mio desiderio di creare. Sembra una cosa super narcisistica forse, ma credo che se uno che fa musica si preoccupa di che cosa possa piacere per creare un prodotto moderno, ecco che è già scaduto nella mediocrità.

Parlando degli arrangiamenti, ho avvertito una certa influenza delle sonorità anni ’80: è così? c’è questa ispirazione nei nuovi pezzi?

Si si… c’è, hai colpito nel segno! Ci sono gli anni ’80 e i primi ’90. Questo perché negli ultimi due/tre anni ho fatto un revival di quello che ascoltavano i miei genitori. Sono tornata ad ascoltare il progressive, i Genesis per esempio! I rif del pianoforte, queste batterie gigantesche senza piatto, se ci pensi sono super Phil Collins! Sono momenti che appartengono a quando ero piccolina e quella roba lì è una musica che non ti scegli e l’assorbi senza accorgertene. Per fortuna che erano i Genesis!

Ma non solo, sono andata a riprendermi anche cose un po’ più Pop/Dance, il Punk-Rock californiano di quando era adolescente, il Grunge… i dischi suonati! Volevo proprio tornare a toccare con mano la musica che suona. Avevo voglia di entrare in studio e avere dei musicisti che picchiassero lo strumento e di registrare quel tipo di suono, che assolutamente arriva anche dagli anni ’80. Sono gli anni in cui son nata come essere umano, è iniziata lì la mia storia. La tua storia musicale inizia quando nasci, in fondo!

Il disco è stato anticipato dai singoli “Assurdità” e “Preghiera per tutti”, usciti quasi in contemporanea a distanza di poche settimane l’uno dall’altro. Come mai questa scelta?

Credo che lo streaming abbia modificato il nostro modo di assorbire la musica e per me questa scelta serviva ad incuriosire su due brani molto differenti, che al contempo sono due manifesti di una forza che il disco si ripropone di ricreare al suo interno. C’è altro oltre a quell’energia lì, però mi piaceva l’idea di dire: “Ok, mangiate questa caramella, poi c’è anche questa e poi c’è una fetta di torta, se non siete ancora sazi”. Volevo proprio che ci fosse un manifesto di quello che il disco può raccontare, conscia del fatto che i dischi oggi possano essere anche smembrati e fatti ascoltare non nella loro unità. Lo streaming rende più fluido il concetto di uscita e quindi il fatto di porzionare in piccole dosi aiuta a non arrivare ad un’indigestione. Il disco non è semplicissimo da seguire, ci vuole un’attenzione particolare, e questo era un modo per non rimpinzare troppo il polpettone.

LEGGI: Irene Ghiotto lancia il singolo Assurdità e riceve il Premio Anatomia Femminile

In “Assurdità” affronti un concetto alquanto singolare, in “Preghiera per tutti” usi nelle strofe la struttura del Padre Nostro: da quali sentimenti/sensazioni sono nati questi brani?

Ho fatto un lavoro su di me, soprattutto sulla creazione della parte testuale. Volevo assolutamente svincolarmi da quel mio modus operandi che ormai era diventato un po’ una gabbia. Che era quello di raccontare semplicemente di me e delle mie emozioni sulle relazioni. Mi ero annoiata da sola nel vedere quanto fossi replicativa in uno schema. In questi brani, invece, son partita dall’idea di voler raccontare qualcosa di diverso.

Nel primo caso ho preso un concetto difficilissimo da mettere a fuoco: l’assurdo. Qualcosa che è sconveniente ma che ti fa anche ridere. Mi sono chiesta come metterlo in scena dal punto di vista del testo, della melodia e dell’arrangiamento. Lo considero una sfida complessa perché non è un concetto semplice, difficile da definire anche a parole.

Preghiera per tutti è basato sul Padre Nostro, ma di fatto è una preghiera laica. Anche lì volevo cercare di aprirmi a contenuti meno introspettivi, che non riguardassero esclusivamente me. Poi come tutti i cantautori sono una terribile narcisista e quindi per quanto io cerchi di raccontare dell’altro, torno sempre a me. Però il punto di partenza, l’ambizione, era quello di raccontare qualcosa che riguardasse anche gli altri ed essere efficace in argomenti che solitamente non sono argomenti di canzone. È un augurio che si possa cambiare.

“Se ti capita di piangere spesso, riditi addosso”, canti in “Ingegneri delle anime umane”. Chi sono gli ingegneri delle anime umane?

Questa è la definizione che dava il regime sovietico degli artisti, degli scrittori. Che è terribile, come se ci fosse un ingranaggio, questi numeri che devono produrre un movimento, piuttosto che sovrascrivere delle informazioni. Nella canzone io mi rivolgo a tutti quelli che vogliono fare un mestiere straordinario, nella vita. A coloro che vorrebbero darsi alla vita, ma che trovano sempre una scusa per non farlo completamente.

Cerchiamo di essere felici e perseguiamo quello che sappiamo fare. È un augurio che principalmente faccio a me, di essere felice di quello che raccolgo e di perseguire questa empatia che ho verso le vite degli altri. Cercare di creare delle relazioni, sia nel lavoro che nella sfera personale, che siano durevoli e non piangermi addosso se le cose non vanno sempre come dico io. Fare in modo di apprezzare quello che c’è e ascoltare dentro, soprattutto la realizzazione che noi sappiamo qual è per noi. Noi sappiamo dove dobbiamo andare per essere felici. Alla fine lo sappiamo e dobbiamo dircelo con più forza!

In mezzo tra il primo e questo secondo disco c’è stata una collaborazione con Fabio Cinti che ha dato vita al progetto Marvis, è arrivato qualcosa di questa esperienza in Superfluo? Mi aspettavo qualche brano in inglese…

Su questa cosa mi tocchi un po’ sul vivo! Mi piacerebbe scrivere in inglese perché si allarga molto la possibilità di ascolto, le orecchie che possono ascoltarti sono di più! Non lo dico perché voglio per forza più pubblico, ma perché è l’ambizione un po’ di tutti essere internazionali, gareggiare e mettersi in pista con un’audience più ampia. Comunque l’idea di costruire un nuovo progetto in lingua inglese, te lo dico, c’è! Per il momento sono ancora tanto legata alla parola in italiano. Ho già scritto qualcosa, ma tutto quello che faccio in lingua inglese è ancora a livello embrionale e in via di sperimentazione. Ho questo scalino da superare e non è detto che non riesca a superarlo, ma per il momento ho preferito l’italiano perché ho sentito che era più vero, più giusto, più sincero.

Per quanto riguarda l’esperienza con Fabio Cinti è stata utilissima e formativa a livello tecnico. Perché è un autore notevole e anche un intellettuale notevole, se mi posso permettere. Poi è molto bravo soprattutto nella parte musicale, quindi vivendo quell’esperienza di un disco insieme (The Tine Line, NDR) ho imparato moltissimo dal vederlo all’opera, vedendo come lui arrivava al compimento di un’idea di produzione.

Nel 2015 hai vinto il Premio Bianca d’Aponte e recentemente hai ricevuto il Premio Anatomia Femminile dal giornalista e critico musicale Michele Monina in occasione del MEI25, due realtà legate al cantautorato emergente femminile e al femminile nella musica. Quanto è difficile essere una cantante donna in questo esatto momento?

Io credo che fare musica sia difficile a tutti i livelli, anche per gli altri. Donne e uomini in generale, hanno difficoltà proprio gli emergenti! Essere donna, però, oggi è complesso perché il mondo discografico e dello showbiz, quindi non il mondo musicale e quello dei musicisti, è un po’ maschio centrato.

La questione è duplice: la prima è che la musica femminile dovrebbe avere la stessa vetrina di quella maschile, cosa che numericamente e oggettivamente non ha. La seconda è una questione un po’ più complessa: cioè quanto la musica delle cantautrici è più articolata, più trasversale, meno semplificativa di quella maschile? Io credo che ci sia una differenza di approccio e con questo non voglio dire che il cantautorato femminile sia un genere, perché non è così! Però c’è qualcosa che ci avvicina tutte, che secondo me sono le tematiche e il modus operandi. C’è un peso sulla schiena, dobbiamo essere fighe e anche brave, cioè cosa ci si aspetta dalle donne? Tantissimo! È per questo che spingiamo come delle belve!

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Tra l’altro, come si può vedere dallo shooting che hai fatto per l’album, hai anche cambiato look. Sei tornata con un’immagine più “strong”… 

Ma questo l’ho fatto perché volevo, non per un secondo fine! Sentivo che volevo usare il corpo, essere anche immagine. Fino ad adesso sono sempre stata solo cervello, ma io sono anche un corpo, quindi se posso essere figa perché no?! E non è detto che questo diminuisca necessariamente la mia opera.

https://www.instagram.com/p/B2ESq3UoqpX/

Negli scorsi giorni sono stati annunciati i nomi dei 65 emergenti che proseguono la corsa verso Sanremo Giovani. Tu nel 2012 hai vinto Area Sanremo e l’anno seguente hai gareggiato nella categoria delle Nuove Proposte, ti piacerebbe tornare al Festival? 

Non escludo di tornare a Sanremo (lo dico più per fatalismo che per desiderio). Comunque non credo ci tornerò, per ora la considero un’esperienza passata e che resta nel passato.

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