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E’ giusto pagare 60 euro videogiochi buggati?
E’ giusto pagare 60 euro videogiochi buggati? Le software house lo ritengono inevitabile per dividere con i gamers i costi di sviluppo, e molti videogiocatori accettano il diktat sperando di investire in giochi buggati che tramite il loro investimento diverranno capolavori, come accaduto con Cyberpunk 2077.
L’industria dei videogiochi è in costante crescita, avendo ormai superato di molto il giro d’affari di cinema e musica, tanto che perfino i fondi sovrani degli stati occidentali (esempio Norvegia) investono nei games. A fronte di questa crescita impetuosa di fatturato e prestigio, nel mondo delle software house si sta facendo strada una pessima abitudine: il rilasciare a prezzo pieno videogiochi evidentemente buggati, talvolta persino ingiocabili. La domanda che ricorre fra i gamers ormai è sempre la stessa “E’ giusto pagare 60 euro videogiochi buggati?”. La risposta però è meno semplice di quanto possa sembrare, vediamo il perché.
Il problema dei costi di sviluppo
La questione fondamentale per le software house è semplice: i costi di sviluppo sono sfuggiti di mano. Ormai una tripla A fra sviluppo e marketing costa quanto un kolossal hollywoodiano, e ha dei rischi di fallire persino maggiori di quelli dei grandi film. Facciamo un esempio: Cyberpunk 2077 è costato 174 milioni di dollari di sviluppo e altri 142 di marketing, per un totale di 316 milioni di dollari di spesa solo per il lancio. Un kolossal ultrapompato come il Gladiatore 2 è costato 310 milioni di dollari, più altri 200 milioni di marketing e costi distribuzione, tanto che per andare in pareggio dovrà generare almeno 550 milioni di incasso al botteghino. Una cifra simile a quella che ha dovuto generare Cyberpunk, che è andato in pareggio solamente per l’acquisto sulla fiducia dei giocatori al giorno di lancio, per poi calare bruscamente le vendite non appena sono emersi i numerosi bug che lo rendevano ingiocabile.
Versioni alpha non dichiarate
Ecco quindi che le software house per tagliare i costi e tutelarsi dai rischi di fallimento, hanno scaricato parte dei costi di sviluppo sui giocatori. Sì, perché la tristissima moda di far uscire versioni alpha (cioè grezze e instabili) spacciate per giochi finiti e di proporle a prezzo pieno al pubblico, altro non è che un modo subdolo di utilizzare l’acquirente come tester del gioco e membro inconsapevole di un focus group, utilizzando le sue prime impressioni per capire come modificare il gioco e renderlo più appetibile a futuri compratori. Questo brutto vizio è diventato così diffuso che molti videogiocatori comprano i titoli tanto attesi un anno dopo l’uscita, aspettando che a forza di patch siano finalmente giocabili (!!). Altri gamers al contrario hanno sviluppato una sorta di etica del sacrificio e del volontariato, comprando il gioco al lancio sapendo che per mesi dovranno giocare una versione buggata ed instabile del prodotto, che potrebbe (non c’è alcuna certezza) migliorare anche attraverso le loro segnalazioni e commenti.
Le community di gamers sono diventate dei sindacati dei consumatori
Di fronte al triste andazzo portato avanti dalle grandi software house del settore, i gamers hanno risposto in un modo che sembrava impossibile fino a pochi anni fa: diventando sindacati informali di consumatori. Utilizzando metodi come lo sciopero dell’acquisto, le review bombing, l’intasamento delle caselle di posta elettronica della software house con mail di protesta, le community di appassionati hanno ottenuto vittorie importanti negli ultimi due anni: abbassamento del prezzo dei giochi buggati (Total War Pharaho), rimborsi totali (Cyberpunk 2077), aggiornamenti continui, DLC gratuiti o fortemente scontati (Total War Warhammer III), diventando un vero e proprio contropotere con cui le multinazionali devono fare i conti. Nonostante questo, la pratica delle versioni alpha non dichiarate non ha subito battute d’arresto, ma si è solamente “moderata”, cercando di rilasciare videogiochi per lo meno funzionanti.
Le early access
Nonostante l’encomiabile impegno delle community dei giocatori, una parte dei fan ha ritenuto che gli eccessivi costi di sviluppo e l’imprevidibilità delle vendite, renda inevitabile per le software house ricorrere al lancio di videogiochi buggati per rientrare nei costi e continuare lo sviluppo del prodotto. Ecco quindi nascere la pratica dell’early access: sostanzialmente le software house rilasciano un prodotto dichiaratamente non rifinito e buggato a prezzo scontato (di solito del 50%), e chiedono gentilmente ai giocatori di acquistarlo per finanziare l’ulteriore sviluppo del gioco e rifinirlo secondo le indicazioni che riceveranno dagli acquirenti. Una pratica eticamente molto più accettabile dei prodotti rilasciati in fase alpha senza dirlo, che tuttavia pone una nuova serie di problemi: se il gioco vende poco in fase di early access gli sviluppatori poi hanno il diritto di abbandonarlo? E se questo accade, chi l’ha comprato in early access ha diritto al rimborso oppure ha perso semplicemente i soldi in un investimento sbagliato? Problematiche nuove che scatenano ampi dibattiti sui social e sui forum, dato che una regolamentazione su questi punti ancora manca.
Il caso Cyberpunk 2077
Ritornando alla domanda di partenza “E’ giusto pagare 60 euro videogiochi buggati?”, il caso di Cyberpunk 2077 sembra fatto apposta per dividere su due fronti opposti e incomunicanti i videogiocatori. Alla data d’uscita il gioco era letteralmente ingiocabile: crashava continuamente, le missioni non si potevano portare a termine perché i personaggi scomparivano senza motivo, talvolta nelle azioni più concitate rallentava così tanto da sembrare andato in moviola. Dopo numerose proteste e richieste di rimborsi, gli sviluppatori della CD Projekt Red hanno promesso aggiornamenti e correzioni continue e un supporto post uscita protratto nel tempo, e dopo due anni di lavoro hanno reso un gioco letteralmente ingiocabile un capolavoro tale da battere numerosi record di vendita (30 milioni il gioco base più 8 milioni l’espansione Phantom Liberty), ed essere addirittura acclamato al Goty del 2023 (la versione videoludica degli Oscar del cinema, per capirci). Gli sviluppatori hanno dichiarato che senza l’enorme incasso al lancio (13 milioni di copie vendute letteralmente sulla fiducia) non avrebbero mai avuto i fondi per continuare lo sviluppo e trasformare Cyberpunk da versione alpha non dichiarata a capolavoro. I 60 euro sganciati dai primi acquerenti sono stati quindi un investimento fondamentale, anche se non consapevole.
Il futuro
Nonostante la crescita d’importanza e di attivismo delle community di videogiocatori, la pratica di rilasciare versioni buggate dei giochi senza dichiararlo ha radici economiche troppo profonde per essere estirpata. Fra i gamers sembra essersi diffuso un certo fatalismo: lo spendere 60 euro per giochi che non funzionano è lo scotto da pagare per avere games sempre più vasti, complessi e tecnicamente raffinati. Un’idea che sembrerebbe demenziale per qualsiasi altro prodotto sul mercato: se la Rolls Royce rilasciasse auto che non partono, oppure che non hanno i freni, quale amante delle auto di lusso accetterebbe la situazione pensando che in fondo l’aver pagato un’ auto che non funziona è il prezzo necessario per avere in futuro un’ auto perfetta? Eppure è letteralmente ciò che la gran parte dei videogiocatori oggi ritiene inevitabile: diventare dei finanziatori e dei tester non retribuiti di prodotti buggati che -forse- un giorno saranno capolavori. Qualcuno potrebbe etichettare questo pensiero come una forma paradossale di fede religiosa, e non avrebbe tutti i torti.