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L’Italiano è ciò che mangia?

L’Italiano è ciò che mangia? Secondo la nuova scuola di foodblogger e agenzie del marketing sì, la nostra identità nazionale riparte da qui. Eppure la questione è tutt’altro che pacifica: gran parte del cibo che ci vendono come patrimonio che costituisce la nostra identità d’italiani è d’invenzione recentissima, e la sua presunta antichità è una costruzione a tavolino di foodblogger e agenzie di marketing

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L'Italiano è ciò che mangia? Secondo la nuova scuola di foodblogger e agenzie del marketing sì, la nostra identità nazionale riparte da qui. Eppure la questione è tutt'altro che pacifica: gran parte del cibo che ci vendono come patrimonio che costituisce la nostra identità d'italiani è d'invenzione recentissima, e la sua presunta antichità è una costruzione a tavolino di foodblogger e agenzie di marketing
Crediti foto fattoincasadabenedetta Instagram

Non è un mistero che dagli anni ’90 in poi il cibo sia sempre più presente sui media italiani. Una presenza che inizialmente serviva a promuovere un mercato capace di resistere alle crisi economiche e alla deindustrializzazione, e che poi si è trasformato sempre più in un discorso che mirava a dare al pubblico non solo un prodotto di qualità, ma un vero e proprio assaggio dell’essere italiani. La questione su quale sia l’identità italiana, chi abbia il diritto a definirla e con quali fini è uno di quei problemi annosi a cui non si troverà mai una soluzione condivisa, tuttavia c’è sempre qualcuno che ci prova, e gli ultimi in ordine di tempo sono foodblogger e brand legati al cibo che ci pongono un’interessante domanda: l’Italiano è ciò che mangia? Ovviamente per loro la risposta è un netto “Sì”.

Non c’è più l’identità di una volta

Se negli anni ’60, ’70 0 ’80 avessero chiesto ad un abitante del Bel Paese se la sua identità fosse basata su quello mette in tavola a mezzogiorno, avrebbe riso di cuore. Nel secolo scorso infatti era opinione comune che l’identità nazionale fosse basata su fattori “alti” come la comunanza di lingua, di religione, di modo di concepire la famiglia, sull’aderire ai diversi ideali politici proposti dai partiti che hanno fatto la storia della Patria (rigorosamente con la maiuscola). L’identità collettiva insomma era basata su fattori considerati eterni e immutabili, o per lo meno vecchi di secoli e così radicati da sembrare naturali come il colore degli occhi con cui nasciamo. Tutto questo è entrato in crisi tre decenni fa, lasciando un buco enorme che andava riempito.

Il nuovissimo che si tinge d’antico

Davanti ad una crisi identitaria a cui non c’era (e non c’è) risposta, negli anni ’90 comincia a farsi timidamente avanti la possibilità che sia il cibo che consumiamo a tavola a definirci come italiani. Un’idea che si basava sull’unione fra il marketing storico di brand italiani del cibo come Barilla (“dove c’è Barilla c’è casa”) e le istanze promosse dai movimenti del consumo critico, che ritenevano (e ritengono tuttora) che il ruolo del cittadino attivo e cosciente sia quello di scegliere attentamente quanto, cosa, come e dove consumare, per combattere sprechi, truffe e potenziali danni alla propria ed altrui salute. Il matrimonio fra le idee provenienti dal consumo critico e le campagne pubblicitarie di brand come la Barilla ha generato quello che oggi abbiamo davanti: l’idea che in fondo siamo italiani perché consumiamo “autentico cibo italiano”, e lo consumiamo perché nell’autenticità della nostra cucina c’è nascosta (da sempre!) la nostra identità, e la nostra identità è sana, genuina ed equilibrata esattamente come il nostro cibo!

La crisi del vecchio marketing del cibo

I semi dell’idea a fine anni ’90 e inizio 2000 erano già gettati. Ciò che mancava però era una diffusione capillare dell’intuizione, un’alleanza di brand, agenzie di marketing, locali e testimonial mossi da un unico armamentario retorico ma soprattutto da un unico interesse economico che ripetesse all’infinito la medesima idea, perché l’identità collettiva funziona se è un racconto sempre uguale a se stesso, incontestabile e soprattutto se viene raccontato con le stesse parole da più persone autorevoli contemporaneamente. A rispondere al bisogno di coesione e capillarità del dicorso arrivarono le agenzie di marketing tricolori, che dopo la crisi economica devastante del 2008 e del 2012 hanno capito che un marketing aggressivo basato sull’idea di novità e sperimentazione, è controproducente in un momento in cui le famiglie tiravano la cinghia e i consumi dei beni non essenziali stagnavano.

Local Marketing e foodblogger

Ecco quindi l’idea geniale: basiamo il nostro nuovo modo di vendere i brand dandogli un’aura di storicità, di familiarità, di solido ancoraggio alla vita quotidiana delle persone semplici, mettendo in soffitta la retorica usata fino a ieri di quanto bello fosse il prodotto nuovo, rivoluzionario, internazionale. Proprio nello stesso momento si impone sui social la figura del foodblogger, che non aveva -ancora- la potenza di fuoco mediatica ed economica per proporre seriosi discorsi sull’identità dei brand (figurarsi su quella di una nazione), ma che con il suo guadagnare uno stipendio proponendo piatti più o meno tipici della tradizione italiana dimostrava che c’era un’ampio pubblico sensibile all’unione fra discorso sul cibo, ascolto quotidiano dell’influencer e consumo dei brand consigliati dai neonati cuochi su Instagram.

L’identità italiana secondo Masterchief

A dare la consacrazione definitiva al fenomeno mancava però ancora qualcosa. Ecco quindi apparire in tv la versione tricolore di Masterchief: grandi chef stellati italiani e internazionali che giudicavano l’abilità di aspiranti chef utilizzando -fra gli altri criteri- l’aderenza all’autentico canone italiano delle proposte dei giovani wannabe Marchesi. Con il successo travolgente di Masterchief addetti marketing, proprietari di locali e foodblogger capirono qual era il quid mancante: la sanzione dall’alto, di un’autorità conosciuta e riconosciuta, di quale sia l’autentico piatto tricolore e di quali invece siano piatti spuri, non tradizionali o pessime scopiazzature estere.

Creato il canone, arrivato i canonizzatori

Se Masterchief Italia aveva finalmente creato il canone mancante, a rendere capillare e a ripetere fino allo sfinimento il canone appena creato sono arrivati brand, agenzie di marketing, foodblogger e locali vecchi e nuovi. Davanti ad un fronte così coeso per interessi economici e narrazione, istituzioni venerande e in perenne crisi (economica e di iscritti) come le università italiane hanno deciso di aggregarsi al nuovo trend, istituendo corsi ad hoc che insegnano ai rampanti studenti come creare il marketing del vero “italian food”. Ma siccome l’università deve darsi un tono e mantenere la sua missione di “luogo di elaborazione critica dei saperi e delle pratiche”, mica poteva vendere i corsi sul marketing di cibo e vino utilizzando le argomentazioni usate dalle agenzie di marketing e dai foodblogger per i brand, cioè dicendo “noi non facciamo altro che farti vedere il vero, millenario ed autentico cibo italiano come lo cucinava la tua trisavora”.

Le università ti insegnano a creare identità

Le università hanno pubblicizzato questi corsi scrivendo nelle brochure che al corso avresti imparato “come si crea l’identità di un vino o di un cibo“. Cioè hanno messo nero su bianco quello che sa chiunque si occupi della questione italian food per lavoro, ma che non può dire sennò casca il palco (o meglio, si rovescia la tavola): il 90% dei cibi e dei vini che ci vengono venduti come storici e da sempre parte della tradizione italiana sono invenzioni recenti o persino recentissime. Invenzioni a cui è necessario fare un lavoro di storytelling molto creativo per trovare antecedenti storici e convincere il consumatore che sta mangiando la stessa cosa che mangiava il suo bisnonno, quando invece sta ingurgitando un prodotto che è stato creato in qualche pastificio semisconosciuto appena due anni prima.

In carbonara we trust

Che futuro attende l’unione fra cibo e identitarismo italiano? A guardare i dati di consumo e l’ampio consenso che gode chi si fa alfiere dell’unione fra cibo e italianità, sembra roseo: i foodblogger in Italia spuntano come funghi perché il mercato è solido e florido, resistendo persino all’aumento dell’inflazione e alle critiche di chi nota che il definire un popolo per ciò che mangia non è solo un po’ riduttivo, ma nel caso italiano può creare dei cortocircuiti paradossali. Prendiamo la carbonara: venduto come il piatto tipico e ultrastorico della tradizione italiana, a renderla canonica nella forma che oggi tutti ci vendono come atavica è stato il grande chef Gualtiero Marchesi nei primi anni ’80, canonizzando come ingrediente fondamentale la panna che molto probabilmente non era utilizzata nella ricetta tradizionale. Panna da cucina che fra l’altro era una delle punte di diamante della linea di prodotti da supermercato inaugurati da Marchesi nello stesso nel periodo… L’esempio carbonara ci costringe quindi a riformulare la domanda: l’italiano è ciò mangia perche il marketing gli dice che da sempre ha mangiato così?

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